Anniversario amaro per il governo Renzi. Nel decennale del giuramento al Quirinale la Corte costituzionale ha per l’ennesima volta fatto a brandelli la sua riforma spot, il Jobs act. E dire che il segretario di Italia viva si era impegnato, com’è nel suo stile, a ricordare la data a tutti e si aspettava che tutti la ricordassero. Ieri mattina aveva dispiegato i mezzi in suo possesso, newsletter, social, il Riformista (che non dirige più ma su cui ancora detta la linea) per elencare i successi del suo governo, che proprio il 22 febbraio 2014 entrava in carica. «Noi facevamo le riforme, non solo i tweet», scrive giusto sull’ex twitter, e poi le sciorina tutte: quelle solo propagandate su slide, quelle annunciate e poi ritirate, quelle bocciate come la riforma costituzionale, quelle contestate come la Buona Scuola, quelle fallimentari come gli 80 euro, quelle venute dopo e quelle ideate prima.
NELLA LISTA dei motivi che hanno fatto vincere all’Italia il «Premio paradiso in terra 2014» non poteva mancare «il Jobs act con un milione di posti di lavoro», come ha scritto Renzi approfittando del fatto che Silvio Berlusconi fosse deceduto e non potesse rivendicare la paternità dell’espressione. «È stata una stagione meravigliosa», chiosa l’ex presidente del Consiglio, sorvolando sul fatto che sono pochissimi gli italiani che lo ricordano così quel periodo, intorno al 2% probabilmente, e che neanche quelli, a quanto si percepisce dalle reazioni social, hanno festeggiato. In compenso ieri la Corte Costituzionale ha demolito un altro asse del Jobs act esprimendosi a favore del reintegro del lavoratore licenziato ingiustamente pure nei casi in cui è la giurisprudenza a elaborare la causa di nullità.
È STATA INFATTI DICHIARATA l’illegittimità costituzionale del primo comma dell’articolo 2 della legge renziana, limitatamente alla parola «espressamente» riferita alla reintegrazione del lavoratore. A sollevare la questione davanti alla Consulta era stata la Corte di cassazione rimettente, secondo la quale la limitazione era in contrasto con l’articolo 76 della Costituzione deducendo che l’esclusione delle nullità, diverse da quelle «espresse», non trovasse rispondenza nella legge delega, la quale riconosceva la tutela reintegratoria nei casi di «licenziamenti nulli» senza distinzione alcuna.
LA CORTE COSTITUZIONALE ha ritenuto fondata questa censura e ha sottolineato che il criterio direttivo della legge «aveva segnato il perimetro della tutela reintegratoria del lavoratore nel posto di lavoro in caso di licenziamento illegittimo, escludendola, in negativo, per i licenziamenti ‘economici’ e prevedendola, in positivo, nei casi di licenziamenti nulli, discriminatori e di specifiche ipotesi di licenziamento disciplinare». Di fatto, quindi, si torna ad ampliare la possibilità di reintegro nel posto di lavoro, eliminando i paletti introdotti dal Jobs act per tutti i nuovi assunti. Si dicono «favorevoli» alla sentenza Uil e Cisl che pure specificano, come altre volte, di volere solo un «riequilibrio» del provvedimento, come ha detto Ivana Veronese, segretaria confederale della Uil. Anche Mattia Pirulli, segretario confederale della Cisl si è detto convinto che la sentenza possa avere «un impatto positivo sul piano operativo senza intaccare i principi fondativi del contratto a tutele crescenti che troppo spesso sono stati oggetto di critica al Jobs Act». La Cgil preferisce non commentare nel dettaglio, sottolineando come vada contestato l’intero impianto della misura renziana.
IL JOBS ACT in questi anni è stato fatto a brandelli dalle sentenze: nel 2018 la Corte ha smontato le tutele crescenti, nel 2020 ha censurato il meccanismo di indennizzo in caso di vizi formali e procedurali, due anni dopo ha rivolto un monito al legislatore a predisporre tutele adeguate per i lavoratori. Adesso la sentenza della Consulta allarga la tutela per i lavoratori licenziati. È parere dei giuslavoristi che un riordino del settore non sia più rinviabile. La questione ora è in mano al governo Meloni, se vorrà affrontarla. Intanto i cocci li raccolgono i lavoratori mentre «il premier più giovane della storia unitaria del nostro Paese», che ha formato «la prima squadra con la perfetta parità tra ministri e ministre», come lo stesso Renzi ha scritto ieri, si trastulla con l’anniversario e sui social si autocita «Arrivo! Arrivo!».
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