Per uscire dallo sboom economico europeo occorre interrogarsi sugli effetti che la Terza rivoluzione industriale, quella della rete, ha prodotto nel Vecchio continente. L’economia digitale, oltre a mutare i rapporti di forza tra lavoro e capitale, ha infatti trasformato anche lo stesso principio di ricchezza, divenuto intangibile e meno controllabile, consistendo in larga parte in flussi informativi cui si collegano quelli finanziari. È in corso una dematerializzazione non solo dei beni, quali i derivati finanziari, i servizi a famiglie e imprese o i dati di chi naviga su Internet, ma degli stessi proventi che giungono dall’utilizzo del web.
Durante l’eurocrisi, a fronte di un’economia reale che a livello mondiale è cresciuta nel 2012 del 3,2% rispetto all’anno precedente, quella internettiana ha presentato un incremento del 5,2%, giungendo a coprire quasi il 6% del Pil mondiale. In Europa il tasso medio di crescita del Pil è stato dello 0,6% ma il peso dell’economia digitale è giunto al 6,8% della ricchezza comunitaria. E in Italia non è andata diversamente: sempre nello stesso arco di tempo, nel nostro Paese l’economia reale è calata del 2,4%, mentre il web market ha coperto il 4,9% del Pil nazionale con un valore di quasi 69 miliardi di euro. Secondo i dati Ocse, fino al 13% del valore generato dalle aziende potrebbe essere attribuito alle virtù taumaturgiche della rete, mentre il settore ha assorbito il 50% di tutte le operazioni di venture capital già nel 2011.
Accontentarsi quindi nel 2015 di una crescita europea di poco più dell’1% significa in sostanza mettere in conto la saturazione di un intero sistema, perché chi può spendere non incrementa le sue spese e chi non ha questa possibilità è ormai fuori dall’area dei consumi: alla marea dei senza lavoro dovranno quindi pensarci i governi con i loro claudicanti sistemi di welfare piuttosto che le imprese. E due considerazioni dimostrano la distonia che esiste in questa fase tra Europa e Stati Uniti. In primo luogo, nell’Ue si registra un aumento consistente delle persone a rischio povertà o di esclusione sociale. Per Eurostat, il dato medio di questo esercito sulla popolazione complessiva comunitaria è salito dal 24,3 del 2011 al 24,5% del 2013 nell’Ue, con picchi in Portogallo (27,5% contro il 24,9% del 2011), Spagna (27,3% contro 24,7%), Italia (28,4% contro 24,7%), Irlanda (29,5% contro 25,7%), Grecia (35,7% contro 27,6%). Persino nel Regno Unito, che cresce meglio di tanti altri Paesi, le persone che stanno cadendo nel baratro dell’inconsistenza reddituale sono passate dal 22% del totale al 24,8%. Fatta eccezione per Francia, Germania e Austria, dove questo indice è pressoché stabile tra il 18 e il 20%, si fa fatica a capire come i consumi possano aumentare quando un europeo su quattro deve essere sostenuto per portare avanti un’esistenza dignitosa non avendo di fatto capacità reddituale. E si spiega così anche il fatto che la Banca centrale europea dia quasi per scontata un’endemica disoccupazione del 10% nel 2017.
Servirebbe uno scatto epocale innovativo di cui non se ne vede l’ombra. E non è detto che basti. Anche dall’altra parte dell’oceano proprio la Terza rivoluzione industriale — dopo quella della fabbrica e dei microprocessori — comincia a lasciare sul campo parecchie vittime. Secondo due ricercatori dell’Università di Oxford, nel giro di una ventina d’anni il 47% dei posti di lavoro rientrerà nella categoria «ad alto rischio», cioè sarà potenzialmente automatizzabile. E sono in molti a sostenere che questa computerizzazione dei livelli produttivi in futuro comporterà la sostituzione soprattutto dei lavori meno specializzati e a basso salario, mentre quelli più specializzati e ad alto reddito se la caveranno decisamente meglio. Non deve perciò stupire se l’indice S&P 500 della borsa di New York sia salito in un anno del 20% mentre i salari sono cresciuti solo del 2. Gli effetti della dematerializzazione di molti processi industriali negli Stati Uniti e la nuova era di Internet che rende possibile la marginalità a costo zero — tanto decantata da Jeremy Rifkin — alla fine rischiano di mettere ancora più a repentaglio i poveri aumentando invece la solidità dei più ricchi.
Un esempio su tutti può spiegare questo fenomeno. Apple quest’anno potrebbe raggiungere quota 88 miliardi di euro di profitti occupando solo 92.600 persone, mentre negli anni Sessanta General Motors raggiungeva i 7 miliardi di dollari di ricavi dando però un salario a oltre 600.000 dipendenti. Questa è la prova che il capitale si è sostituito sempre più al lavoro e che per produrre ricchezza il denaro ha bisogno di meno individui. Ma sono proprio i consumi individuali a far crescere le economie mature come quella europea, che in più non ha ancora del tutto intercettato la rivoluzione del web e forse mai lo farà.
Giornalista autore de «L’euro è di tutti»
Giornalista autore de «L’euro è di tutti»
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