L’ennesimo suicidio di un imprenditore in difficoltà, in particolare il caso di ieri di Egidio Maschio, co-fondatore e Presidente di un gruppo industriale per la produzione di attrezzature agricole che dà da lavoro a 2.000 persone, ci obbliga a tornare su un tema che avrei preferito evitare come la peste, perché delle morti non si dovrebbe parlare ma restare in rispettoso silenzio. Ma non è dell’atto autolesionistico in sé che vorrei discutere, anche se il fenomeno è talmente diffuso – 402 casi tra il 2012 e metà 2014 – da imporre una riflessione generale. Infatti al di là di ogni difficile considerazione giusta e legittima che però tende a polverizzare le responsabilità quello che ci interessa dire è che c’è qualcosa di patologico nel fenomeno, che ci sono fattori che più di altri contribuiscono a determinare questa inaccettabile mattanza.
Certo l’imprenditore è sempre solo. Ma alcuni imprenditori sono più soli di altri. In particolare quelli che hanno un alto concetto della propria funzione sociale, che sanno di non essere solo macchine per portare a casa più soldi possibile ad ogni costo, che hanno a cuore il lavoro che stanno facendo, gli operai di cui sono responsabili, il territorio e magari avvertono perfino il senso generale delle loro attività: questi sono molto più soli. Sono quelli che in altri tempi, quando non trionfava il modello imprenditoriale alla Gordon Gekko o quello manageriale alla Luca Luciani, chiamavamo veri imprenditori, alla Gaetano Marzotto o alla Adriano Olivetti, che si facevano un punto d’onore nel rispettare le regole e le persone.
Dicono che la Maschio Gaspardo fosse oberata dai debiti e che le banche avessero chiesto il rientro. Non conta. Il problema è che oggi se si è un imprenditore, senza pretendere di assomigliare ai grandi campioni, ci si deve misurare con una situazione disgustosa. Colleghi che scappano con la cassa e licenziano gli operai; falliti nei fatti che per i tribunali non falliranno mai, aziende sane che vengono portate al lastrico. Scelte commerciali scorrette. Banche che finanziano il non finanziabile, strangolano i deboli e non restituiscono il denaro ai propri azionisti, come sta accadendo proprio in questi giorni nel Nord est. Fornitori che non pagano, altri che vorrebbero pagare e non possono, giustizia e burocrazia asfissiante. Politica che si intromette solo per prendere, raramente per capire e, se possibile, sostenere le imprese. Insomma altro che mercato, il mondo delle imprese in Italia oggi è l’antimercato, l’assenza delle regole e del merito, il caos e la giungla totale, dove chi per sbaglio vuole rispettare le regole o peggio, ha delle regole all’interno della sua coscienza che gli impediscono di adeguarsi all’andazzo generale, è destinato a soccombere prima o poi, in gradi differenti, Non basta essere dei duri (e molti imprenditori lo sono), bisogna essere dei banditi.
È questo sistema che carica, arma e esplode la pistola degli imprenditori che si suicidano, non i debiti, le difficoltà, gli errori che sono il pane quotidiano di un imprenditore. È l’impossibilità di uscire dai problemi se non facendo violenza a sé stessi. A quel punto l’unica soluzione è andarsene, lasciare ad altri, forse più adatti a misurarsi con queste ‘leggi’, il problema della sopravvivenza. Chi è cresciuto e ha sviluppato un certo modo di fare impresa, può far tutto ma non negare sé stesso, la propria ragione di vita. Così la violenza ha il sopravvento finalmente e assume la forma autodistruttiva del suicidio.
Ovviamente a qualcuno dovrebbero fischiare le orecchie. Ogni volta che siamo costretti a leggere di un suicidio suona la campana per molte persone. Prima di tutto per il governo e la classe politicache – anziché perdersi in ciance – farebbe bene a mettere seriamente mano alla struttura del mercato in Italia, imponendo poche regole ma chiare e soprattutto adoperandosi affinché il merito, il lavoro, l’impegno siano riconosciuti e rispettati, non solo gli interessi degli amichetti. Magari anche con leggi più serie a disciplina del settore bancario, di quelle varate recentemente. Poi le associazioni dei produttori e i sindacati che saltano sui tavoli solo quando qualche loro interesse di parte viene intaccato e mai si sognano di ostacolare il malaffare quotidiano di cui sono muti spettatori.
Così mi vengono in mente i drammatici momenti dei funerali della scorta di Falcone, quando a tutti parve evidente che quei morti non erano la conseguenza delle bombe, ma di una totale assenza dello Stato nel difendere la giustizia e i più deboli. Questa è l’aria che si respirerà anche quando in molti, ipocritamente, andranno a piangere alle esequie dell’ennesimo imprenditore che ci ha lasciati.
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