Riforma Terzo Settore, il Civil Act di Renzi
Riccardo bonacina, 29
novembre 2014 – il velino
In questi anni il Terzo
settore è stato umiliato, usato spesso, costringendolo a schemi che gli sono
estranei, in un quadro sussidiario al contrario “fate voi che io non ce la
faccio e a poco prezzo grazie” che ha rischiato si snaturarne e corrompere la
stessa anima. Bisognava finirla con questa stagione delle medaglie e dello
sfruttamento, per liberare le energie sociali e civiche che fanno grande e
unico questo Paese. Matteo Renzi ha avuto sempre chiaro che occorreva
#cambiareverso. “Lo chiamano Terzo Settore ma in effetti è il primo”, così era
scritto nel suo programma alle primarie, concetto che ribadì all’uscita dalla
stanza del presidente Napolitano dopo aver definito la lista dei ministri, e
ancora nella conferenza stampa dopo il primo Consiglio dei ministri annunciando
il fondo per l’impresa sociale: "Basta dire come sono bravini questi del
Terzo Settore, no, noi sul Terzo Settore vogliamo investire". Sembrava un
facile slogan qualche mese fa, invece a oltre 200 giorni dal suo insediamento
come promesso a Lucca al Festival del Volontariato (“Oggi è il 12 aprile fra un
mese esatto presenterà le linee guida della Riforma del settore” aveva detto
nell’incontro), l’annunciata riforma del Terzo settore arriva allo scoccare
della mezzanotte del 12 maggio con un tweet.
Qualcuno ha parlato, a me
sembra giustamente, di un vero e proprio Civil act, perché in effetti il testo
fa capire come Renzi stia ridisegnando il campo da gioco della politica: dal
Palazzo al rapporto con la società. La società viene prima, la sua coesione
viene prima, il benessere dei cittadini viene prima della politica che è uno
strumento per la crescita della società, e non per la crescita delle banche o
delle autostrade o dei partiti. Usciamo da anni in cui alla società (e quindi
al cosiddetto Terzo Settore che è poi la società che si organizza), si
guardava, ma dopo. Quando la crescita lo avrebbe permesso, quando l’Europa lo
avrebbe permesso, dopo aver fatto le infrastrutture materiali, una volta messo
a posto il debito. La società, da troppi anni, veniva dopo.
“Noi vogliamo ribaltare la
logica delle ultime stagioni”, aveva detto Matteo Renzi, “noi pensiamo che la
capacità di risposta dei cittadini ai cittadini, il loro impegno civico, sia la
risorsa prima del Paese (Primo settore non più Terzo), pensiamo che la capacità
dei cittadini di partecipare alle sfide del quotidiano in un vero spirito
sussidiario e di solidarietà sia la prima infrastruttura necessaria al Paese.
Per aumentarne il capitale sociale e il grado di coesione delle comunità.
Questa sfida è la nostra sfida perché voi siete un pezzo della scommessa
culturale educative ed economica del Paese”.
Le linee guide proposte vanno
nella direzione giusta. Eccole:
Ricostruire
le fondamenta giuridiche, definire i confini e separare il grano dal loglio.
Riforma del Codice civile
datato 1942 per superare le vecchie dicotomie tra pubblico/privato e
Stato/mercato e passare da un ordine civile bipolare a un assetto “tripolare”,
dobbiamo definire in modo compiuto e riconoscere i soggetti privati sotto il
profilo della veste giuridica, ma pubblici per le finalità di utilità e
promozione sociale che perseguono. Abbiamo inoltre bisogno di delimitare in modo
più chiaro l’identità, non solo giuridica, del terzo settore, specificando
meglio i confini tra volontariato e cooperazione sociale, tra associazionismo
di promozione sociale e impesa sociale, meglio inquadrando la miriade di
soggetti assai diversi fra loro che nel loro insieme rappresentano il prodotto
della libera iniziativa dei cittadini associati per perseguire il bene comune.
Occorre però anche sgomberare il campo da una visione idilliaca del mondo del
privato sociale, non ignorando che anche in questo ambito agiscono soggetti non
sempre trasparenti che talvolta usufruiscono di benefici o attuano forme di
concorrenza utilizzando spregiudicatamente la forma associativa per aggirare
obblighi di legge.
Valorizzare
il principio di sussidiarietà verticale e orizzontale.
L’azione diretta dei pubblici
poteri e la proliferazione di enti e organismi pubblici operanti nel sociale si
è rivelata spesso costosa e inefficiente. Nel sistema di governo multilivello
che caratterizza il nostro paese l’autonoma iniziativa dei cittadini per
realizzare concretamente la tutela dei diritti civili e sociali garantita dalla
Costituzione deve essere quanto più possibile valorizzata. In un quadro di
vincoli di bilancio, dinanzi alle crescenti domande di protezione sociale
abbiamo bisogno di adottare nuovi modelli di assistenza in cui l’azione
pubblica possa essere affiancata in modo più incisivo dai soggetti operanti nel
privato solidale. Pubblica amministrazione e Terzo settore devono essere le due
gambe su cui fondare una nuova welfare society.
Far
decollare davvero l’impresa sociale, per arricchire il panorama
delle istituzioni economiche e sociali del nostro paese dimostrando che
capitalismo e solidarietà possono abbracciarsi in modo nuovo attraverso
l’affermazione di uno spazio imprenditoriale non residuale per le
organizzazioni private che, senza scopo di lucro, producono e scambiano in via
continuativa beni e servizi per realizzare obiettivi di interesse generale.
Assicurare
una leva di giovani con un Servizio Civile Nazionale universale,
come opportunità di servizio alla comunità e primo 3 approccio all’inserimento
professionale, aperto ai giovani dai 18 ai 29 anni che desiderino confrontarsi
con l’impegno civile, per la formazione di una coscienza pubblica e civica.
Per
far questo Renzi, dopo tanti anni, mette sul piatto molte risorse, oltre 1,5
miliardi per
un 5 per mille finalmente stabile e finanziato, per un Servizio civile che non
lasci a casa nessun ragazzo che chiede di potersi impegnare, per dare gambe,
finalmente, all’impresa sociale nel nostro Paese. E semplificando un grado
normativo ingarbugliato e contradditorio (14 leggi di settore e 4 normative
fiscali) con la proposta di una legge Quadro. Ora discutiamone e approfondiamo
e poi la Legge.
Riforma Terzo Settore, è un’occasione per
uscire dalle nicchie
Paolo venturi - ivi
Avanzare, “alzare
l’asticella” postula sempre una fatica, un cambiamento che nel Terzo settore
non può che partire dal recuperare una nuova visione. L’incapacità ad innovare,
infatti, spesso deriva dall’incapacità di assumere una diversa prospettiva dei
problemi. Una prospettiva nuova non significa “nuovista”, bensì “originale”
cioè fedele all’origine. In questo senso riflettere sul valore sociale del non
profit, in un periodo di cambiamenti strutturali sul fronte della domanda e
dell’offerta, equivale proprio a recuperare quella visione “olistica” del
valore, quella che ha dato origine alle prime forme di finanza, agli ospedali,
alle scuole, alle università. Significa, in altre parole, recuperare una
visione capace di superare quell’idea ridotta di sociale, che nel corso degli
anni si è insinuata tanto nelle istituzioni quanto nell’economia. La causa
principale di questa “riduzione” del concetto di valore, sta nell’aver escluso
il “not for profit” dal paradigma dello sviluppo affidandogli un posto additivo
se non quando emergenziale. Slegare il non profit dal tema dello sviluppo ha
alimentato e diffuso l’irragionevole credenza che l’unica forma di valore sia
quello dell’impresa profittevole (for profit), cioè quella che genera profitto,
recidendo così il nesso fra valore sociale e valore economico. In tal modo, nel
tempo si è andata consolidando l’ideologia secondo cui il valore sociale non
sia profittevole.
Sappiamo tutti che questa è
una gigantesca falsità. Non solo perché, storicamente, il non profit è nel dna
di molte istituzioni economiche e sociali, ma perché la ricerca e l’esperienza
quotidiana oggi ci restituiscono l’evidenza quantitativa di un valore economico
straordinario. L’obiezione di molti è che “è misurabile ciò che è tangibile” e
il non profit proprio perché “intangibile” non può essere “pesato”. Anche
questa è una falsità: siamo infatti in grado di mettere a bilancio il valore di
un brand, l’avviamento di un’impresa, la sua reputazione e il suo specifico
know how, ma non siamo “ancora” in condizione di misurare il Valore aggiunto
prodotto dal non profit, cioè da quella “piccola porzione” di più di 300mila
organizzazioni che occupa 1 milione di addetti e quasi 5 milioni di volontari…
La prima innovazione risiede
perciò nel prendere consapevolezza del cambiamento delle modalità di produzione
di valore. Il valore sociale non è un’esternalità (un effetto) ma rappresenta
un input (meccanismo generativo), sia per la competitività dell’impresa (basti
pensare alla Shared Value Theory) sia del nuovo agire della Pubblica
amministrazione (esempio, l’Open Government, la Co-produzione , le
pratiche di Amministrazione Condivisa).
La sola presenza del non
profit nei territori costituisce una proxy dello sviluppo. Basti pensare al suo
contributo al Pil, che nel 2011 era pari al 3,4 per cento (fonte: Istat),
piuttosto che al ruolo che gioca in termini di coesione sociale: ad esempio,
leggendo il dato sull’impiego di risorse umane del non profit e la ricchezza
prodotta annualmente dal territorio ne emerge una forte correlazione positiva
(indice di Bravais-Pearson pari a 0,87; fonte: Unioncamere, 2014). Per non
parlare del contributo in termini di legalità dei territori: la presenza del
non profit e il tasso di criminalità dei territori sono, in questo caso,
inversamente correlati (fonte: Unioncamere, 2014) con conseguenze positive in
termini sia di sviluppo umano sia di competitività delle imprese e, più in
generale, dei territori. Rinunciare a dare un’espressività economica al sociale
nella sua valenza donativa, di advocacy, erogativa e produttiva, significa
togliere un pezzo di valore alla collettività, e questo non possiamo
permettercelo. Abbiamo misurato la felicità (Gross national happiness), la
fiducia (capitale sociale), la capacitazione (capability), il benessere (Bes):
ora è il momento di misurare ossia di dare peso e valore economico al sociale
generato dal non profit.
Ma il Terzo settore è pronto
a convergere verso questo comune obiettivo? L’esito di questo percorso non
dipenderà dalla capacità dell’accademia di fornire indicatori adeguati (forse
ce ne sono già fin troppi) ma dalla convinzione del non profit di co-produrli,
riconoscerli e farli propri. Ne ha estremo bisogno tanto lo sviluppo quanto la
lotta alle diseguaglianze come ci ricorda Stiglitz: "Un tempo credevamo
che ci fosse un trade-off e che avremmo potuto ridurre le disuguaglianze solo
rinunciando a efficienza e crescita, oggi sappiamo che c’è un doppio dividendo:
più uguaglianza significa anche più crescita".
Riforma Terzo settore, finalmente il “che
cosa fai”, conterà più del “chi sei”
Roberto randazzo - ivi
Il processo di riforma
avviato nell’ambito del terzo settore, sembrerebbe guardare anche al - tanto
discusso - tema della misurazione dell’impatto. Il dibattito comincia a
lasciare spazio a riflessioni più concrete che mirano a definire metriche e
sistemi di misurazione dell’impatto (sociale) generato dei soggetti che
realizzano attività di interesse collettivo. Questa prospettiva è ormai diffusa
in ambito internazionale, e il continuum tra impresa e filantropia si ritiene
che passi anche attraverso forme imprenditoriali profit che abbiano una
missione volta al conseguimento di un impatto sociale “misurabile”. Ovviamente,
il tema cardine è rappresentato dalla necessità di trovare (o di creare)
metriche e sistemi di valutazione condivisi che siano in grado di rappresentare
in maniera efficace e trasparente gli obiettivi raggiunti dalle imprese,
trovando una sintesi tra le varie sfaccettature che determineranno l’effettiva
misurazione dell’impatto.
La sfida è sicuramente ardua
in quanto numerosi sono le variabili in gioco e i fattori di cui occorrerebbe
tener conto. La rilevanza di questa valutazione è fondamentale poiché
consentirebbe di superare il dibattito barocco che da sempre caratterizza il
nostro sistema e che permetterebbe di immaginare nuovi modelli imprenditoriali,
in grado di porre in essere attività di interesse collettivo, fuori da un
perimetro prettamente non profit. Aspetto altrove definitivamente metabolizzato
o, in alcune giurisdizioni, mai considerato come ostacolo ad attività
imprenditoriali for profit in ambito sociale. Si tratta di una esigenza ormai
manifestata da più parti, in quanto una misurazione reale delle performance
dell’impresa, permetterebbe di superare una valutazione basata fino ad oggi
solo ed esclusivamente sulla forma giuridica, passando dal “chi sei” al “che
cosa fai”.
Questa tendenza sembra essere
stata recepita nel disegno di legge delega sulla riforma del Terzo Settore se è
vero che per la prima volta si parla dell’impresa sociale come di un soggetto
"avente come proprio obiettivo primario il raggiungimento di impatti
sociali positivi misurabili, realizzati mediante la produzione o lo scambio di
beni o servizi di utilità sociale". Di certo si tratta di uno strumento
che potrebbe essere molto apprezzato sia dal mondo della finanza ad impatto -
che da sempre va a caccia di sistemi che possano misurare l’efficacia degli
investimenti - sia da parte della pubblica amministrazione che avrebbe
finalmente dati certi per valutare il valore che le imprese sociali generano a
beneficio della collettività. La misurazione dell’“outcome”, collegato alla
diffusione di strumenti di impact investing, potrebbe rappresentare una svolta
nell’ambito dell’economia sociale, speriamo solo che - per quanto al momento
priva di contorni ben definiti - questa proposta non rimanga nel limbo delle
buone intenzioni.
Riforma Terzo settore, anche il nonprofit ha
il suo articolo 18
Flaviano zandonai - ivi
L’articolo 18 dello statuto
dei lavoratori nelle ultime settimane è tornato sotto i riflettori del
dibattito politico, monopolizzandolo da par suo. Non per il contenuto – si
tratta infatti di una questione marginale rispetto alla riforma del lavoro – ma
per il suo significato simbolico ed evocativo. L’articolo 18 è una bandiera
strumentalmente utilizzata per identificare le opposte fazioni. E spesso anche
una clava per regolare i conti più che per un’autentica dialettica sui contenuti.
A seconda della posizione consente infatti di tacciare i conservatori – quelli
che vogliono mantenere lo status quo – e gli smantellatori delle garanzie
residue nel mercato del lavoro.
C’è una questione “articolo
18″ anche per il nonprofit? Un dispositivo normativo che assurge a emblema di
un confronto che è anche e soprattutto ideologico? La risposta è si ed è anche
facile da individuare: si tratta dell’articolo 4 del decreto che illustra le
linee guida di riforma del terzo settore. L’articolo in questione riguarda
l’impresa sociale, in particolare la sua definizione. Nel testo infatti si
qualifica questo modello come “impresa privata a finalità di interesse generale
avente come proprio obiettivo primario il raggiungimento di impatti sociali
positivi e misurabili“. Eccolo qui l’oggetto del contendere: il fatto che sia
giusto e possibile misurare in modo oggettivo il valore sociale prodotto non
solo per beneficiari diretti e indiretti, ma guardando anche a effetti
sistemici sulle politiche e sui sistemi di regolazione.
È facile farsi prendere la
mano e leggere questa disposizione come un confronto / scontro tra conservatori
e innovatori. O, in modo più raffinato, tra chi punta l’attenzione sugli esiti
dell’azione imprenditoriale in termini di benefici sociali vs coloro che invece
preferiscono guardare alle forme giuridico organizzative che ex ante possono
garantire un impatto sociale positivo. Ma in ogni caso la rappresentazione è
sbagliata. In primo luogo perché, come ricordava Elena Casolari al recente Workshop
sull’impresa sociale, la normativa italiana è certamente orientata al
cambiamento e in particolare ad arricchire l’ecosistema dell’impresa sociale.
Ma è chiamata anche a conservare esperienze come la cooperazione sociale che si
dimostrano ancora proattive nel cercare soluzioni nuove rispetto a modelli di
servizio e di business che risentono del cambiamento epocale in atto. In
secondo luogo la deriva da articolo 18 è sbagliata perché, come dimostrano
recenti indagini come quella recentemente presentata da Sodalitas – sul fronte
dell’impatto sociale siamo tutt’altro che all’anno zero, nel senso che esistono
culture e pratiche di misurazione molto sofisticate, precise ed anche
sostenibili in termini di costi. In sintesi: esistono tutte le condizioni per
un autentico “dialogo sociale”. Basta volerlo.
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