L'economista keynesiano che osò sfidare Berlusconi. E l'ortodossia
Conobbi Luigi Spaventa in occasione delle elezioni politiche del 1976, quando lasciò i socialisti, all'alba dell'era craxiana, con un Giolitti in declino, in polemica con una certa vaghezza in politica economica del partito di De Martino e si candidò come indipendente nelle liste comuniste. Amato scrisse al segretario socialista dicendo che la perdita dell'economista keynesiano, allievo di Sraffa e Kaldor, era il sintomo di un malessere che non avrebbe giovato in prospettiva alle sorti del partito. Fu buon profeta, pur avendoci poi messo del suo nella parabola ingloriosa del futuro garofano.Spaventa era gentile, ironico, acuminato nei giudizi, sferzante nelle sintesi, lesse e rilesse la breve scheda che gli avevo preparato per inserirla in una iniziativa del «Corriere d'Informazione», edizione pomeridiana del «Corriere», dal titolo Date un volto al vostro voto, per la quale la difficoltà maggiore era quella di reperire le istantanee dei candidati, alcuni dei quali non volevano che si vedesse la loro faccia e al massimo consegnavano al giornale sbiadite foto tessere con improbabili facce patibolari. Ricordo che ci scherzammo su. Non era il tempo di Facebook o di Instagram. Il professore aveva l'ansia della precisione e l'incubo accademico della banalità elettorale, unita a una certa vanità, esposta però in dosi omeopatiche.
La politica lo attraeva, ma manteneva un certo distacco, a volte persino compiaciuto. Aveva coltivato da laburista italiano, in sintonia con Ruffolo, l'idea che la programmazione fosse la chiave dello sviluppo duraturo del Paese, e arrivò a pensare che solo una grande forza popolare come quella comunista, educata alle ragioni occidentali di un mercato regolato, potesse rispondere alle grandi sfide della modernità. Ne rimase deluso, qualche anno dopo, quando capì che la corrente di destra del Pci, interpretata dall'amico Giorgio Napolitano, sarebbe stata sempre minoritaria e ininfluente. Gli indipendenti nel Pci erano indipendenti un po' per finta e qualche volta finirono per costituire eleganti foglie di fico, utili per mascherare una ortodossia economica che vedeva comunque lo Stato esercitare una funzione di indirizzo, persino pedagogica e moralizzante, nei confronti delle forze sociali e dell'imprenditoria privata. Ma di lui Napolitano disse: «Più che un indipendente di sinistra, Luigi è indipendente dalla sinistra».
Possiamo dire, rileggendo la straordinaria biografia di Spaventa, che il rigore scientifico e l'onestà intellettuale non vennero mai meno. I suoi scritti - per anni fu apprezzato collaboratore del «Corriere» - non erano mai banali, ripetitivi, pleonastici. Non si intestardiva su una tesi che la realtà non confermasse. Non proiettava le sue idee sulla cronaca, meravigliandosi che i fatti non andassero nella direzione desiderata o temuta. Sembrava arrogante e altezzoso, ma in realtà era attento al prossimo e incline all'umiltà dell'intelligenza critica. Forse non lo aiutava quell'impronta troppo anglosassone, quella passione per la battuta salace che gli valse il soprannome di «Dobermann», quel suo modo di vestire, il portamento dritto, quasi militare, il sigaro tenuto fra due dita tese.
Spaventa aveva la rara qualità di riconoscere gli errori, come la sottovalutazione dell'effetto deprimente dell'alto prelievo fiscale o del forte indebitamento che l'Italia accumulava. Il professore considerava la recovery italiana, frutto soprattutto della svalutazione della lira, persino migliore delle scelte liberalizzatrici della Thatcher. Ho riletto una sua intervista al «Messaggero» della fine del 1977, nella quale sosteneva che bisognasse finirla con gli ospedali inefficienti e i pié di lista, e che si dovesse avere coraggio di abbattere la giungla delle pensioni e vietare il cumulo tra queste ultime e gli stipendi.
Ne ho riletta un'altra, di intervista, concessa in occasione della sfida impossibile che affrontò, perdendola, alle politiche nel 1994, nel collegio Roma centro contro Silvio Berlusconi. Combatté in quel collegio uninominale, a mani nude, a fronte alta, ma con una fatale sottovalutazione dell'avversario, considerato un'anomalia passeggera. E preso dal fervore elettorale - partecipammo insieme a una trasmissione televisiva ed era evidente la sua preoccupazione di non perdere il voto a sinistra e di non apparire liberale - non parlò troppo nell'intervista a «la Repubblica» della flessibilità del lavoro, nella quale credeva, si dilungò invece sul fatto che le tasse non potessero scendere e il bilancio pubblico fosse difficilmente comprimibile. Non promise, come il suo ingombrante avversario, quello che ragionevolmente non avrebbe potuto un eventuale governo progressista mantenere, ma lasciò al centrodestra tutto il tema dell'eccesso di spesa e della conseguente elevata tassazione. L'errore storico della sinistra nel nostro Paese. Ne discutemmo anche in seguito, e Spaventa ammise che nell'accettare, per irritazione culturale, come disse, quell'impossibile candidatura aveva sottovalutato sia l'avversario, sia soprattutto i suoi argomenti, bollati frettolosamente dalla sinistra come argomenti demagogici, salvo poi rincorrerli, affannosamente e disordinatamente, per un lungo ventennio. Un ventennio del quale Luigi non ebbe la fortuna di vedere la fine.
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