Contrariamente a quanto molti immaginano, il Giappone è uno dei paesi all’avanguardia per quanto riguarda la legislazione del lavoro. Negli ultimi anni c’è stata una vera e propria maratona istituzionale per adeguare leggi, ordinanze, regolamenti e accordi integrativi agli standard minimi internazionali prescritti dall’Ilo (Organizzazione Internazionale del Lavoro). Il tutto ad un ritmo forsennato, che i diretti interessati (soprattutto giovani e donne) non sono riusciti a seguire. Finendo per ignorare, tutt’ora, che certe leggi (tipo il congedo di maternità e parentale, la tutela del lavoro straordinario, il divieto di licenziamento senza giusta causa etc etc) esistono e che un datore di lavoro che le violi può essere validamente denunciato. Perfino la magistratura, che in Giappone è tradizionalmente molto poco “indipendente” (manca, ad esempio, un organo di autocontrollo come il nostro Csm) e decisamente cauta nel censurare le “istituzioni” (siano esse pubbliche, come la polizia, o private, come le grandi aziende) negli ultimi tempi ha dato importanti segni di vita, regalando sentenze che in Occidente sono all’ordine del giorno ma che qui hanno fatto scalpore.
Mi riferisco alla “class action” intentata qualche anno fa – ma giunta a sentenza solo pochi mesi orsono – da un gruppo di donne dipendenti della Shinsei Bank, che avevano lamentato lunghi anni di “mobbing”, mancati scatti di carriera, sperequazione di stipendio rispetto ai colleghi maschi e quant’altro. Grazie all’avvocato Mami Nakano, una delle più attive nel settore dei diritti umani e delle cause di lavoro, hanno ottenuto una sentenza storica: indennizzo in denaro, reintegro immediato (quasi tutte erano state nel frattempo licenziate, altre si erano dimesse), promozioni varie e perfino pubbliche scuse, con obbligo di pubblicazione della sentenza su alcuni quotidiani. Una pietra miliare, insomma. Cui peraltro non ne sono seguite molte altre, almeno a memoria di chi scrive. Sta di fatto che il 90% delle donne che lavorano nel settore privato – nonostante la legge preveda pesanti sanzioni per i datori di lavoro che non solo le pretendano, ma semplicemente le “suggeriscano” – dà le dimissioni in caso di matrimonio o di gravidanza. Difficilmente poi riprendono il lavoro, e se lo fanno, solo con retribuzione e mansioni ridotte.
Già, perché il Giappone corre su due binari, honne/tatemae (本音建前): forma e sostanza, apparenza e realtà, ciò che vedi (che spesso non c’è), e ciò che non vedi (ma che spesso c’è). Mi spiego. Archiviata sin dagli anni ’90 la giaculatoria della piena occupazione, dell’impiego a vita, dell’azienda famiglia, del wa (armonia) che tutto coniuga e unisce in una sorta di Shangri-La del socialcapitalismo, il Giappone si è dovuto pian piano rassegnare al mantra della globalizzazione: precarizzazione del lavoro, riduzione del reddito e quindi dei consumi, aumento del tasso di ansietà e senso di insicurezza sociale. Insomma, è diventato, per dirla con Ichiro Ozawa, politico corrotto quanto astuto che negli anni ’90 vi dedicò un valido saggio, un “paese normale” (curioso che più o meno nello stesso periodo anche D’Alema pubblicò in Italia, un libro ononimo: i due poi si incontrarono, in occasione di un viaggio di D’Alema a Tokyo, e si “annusarono” a lungo, con reciproca curiosità).
Alla fine, anziché estendere i diritti acquisiti – e regolarmente sanciti – dagli shain (dipendenti assunti a tempo indeterminato) il “sistema” si adeguato in basso. Con il risultato che oggi solo un terzo dei lavoratori nel settore privato ha un contratto a tempo indeterminato (nel settore pubblico la percentuale è ancora più alta: ma è destinata a scendere nei prossimi anni, visto che anche lo Stato ha scoperto il fascino del lavoro in affitto), che per le donne la percentuale scende al 15% e che nonostante l’euforia provocata dall’Abenomics (il pacchetto di misure approvate dall’attuale governo per stimolare l’economia, sostanzialmente attraverso una politica monetaria espansiva che possa, nel medio termine, aumentare investimenti, produzione e consumi) i ricchi sono sempre più ricchi e i poveri – in triste aumento – sempre più poveri. “In Italia ho visto che era uscito un libro, anni fa, Generazione mille euro – spiega Karin Amanimiya, scrittrice e curatrice di un seguitissimo blog – beati voi: qui c’è gente che campa con meno della metà. Potete immaginare come”. Ai “nuovi poveri” Karin Amanomiya ha dedicato a sua volta un libro: Working poors (“poveri che lavorano”), in cui descrive il variopinto pianeta dei cosiddetti freeters (dall’inglese free, “libero”, ed il tedesco arbeiter, “lavoratore”), ennesimo eufemismo inventato dai media locali per trasformare una precarietà divenuta oramai una condanna in una sorta di privilegio.
“Il lavoro fisso, a tempo indeterminato è oramai morto e sepolto – sostiene Yasuyuki Nambu, presidente di Pasona, la società che in Giappone ha letteralmente inventato il lavoro interinale e che oggi dà impiego a oltre un milione di persone, compresi manager e consulenti – prima ce ne rendiamo conto, nelle società industrialmente avanzate, meglio è”, chiarisce. “La formula vincente, da ogni punto di vista, è quella dei freeter: il lavoro si sceglie liberamente, sulla base delle proprie esigenze e competenze. E dell’offerta: che per i freeter è enorme ed in continua ascesa”. In cambio di una quota d’iscrizione, che per i giovani fino a 25 anni viene anticipata dalla società stessa, la Pasona mette a disposizione dei suoi “liberi lavoratori” il suo enorme database, dove si può trovare davvero di tutto, e con varie forme di contratto. Da barista a manager, da segretaria part time a direttore di un progetto che dura tre anni. La società può condurre la trattativa, ma non necessariamente: gli iscritti possono anche decidere di negoziare direttamente durata del contratto, condizioni e retribuzione.
Non solo, ed è questo il vantaggio rispetto alle altre aziende di lavoro interinale presenti in altri paesi, Italia compresa: la Pasona “assicura” i suoi iscritti pagando i contributi minimi per la pensione e l’assistenza sanitaria. “Liberi e assicurati”, recita uno degli slogan dell’azienda, il cui fondatore, Yasuyuki Nambu ha anche lanciato un ambizioso programma di “ritorno nelle campagne”. Ai suoi “dipendenti” temporaneamente “liberi” (cioè disoccupati) offre di lavorare gratis (in cambio di ospitalità) in campagna, in varie aziende di agriturismo che ha progressivamente acquisito, dove si coltivano prodotti bioilogici e si organizzano eventi – anche di alto livello – culturali.
Questa per quanto riguarda il tatemae: la parte bella, cool del mercato del lavoro, quella che suscita – e giustamente – invidia. Ma sotto la superficie – e neanche troppo sotto, visto che spesso affiora – c’è la melma dello sfruttamento, della discriminazione, dell’illegalità. Persino, nel caso degli “apprendisti” stranieri, in costante aumento e provenienti soprattutto dai paesi poveri dell’Asia e dell’Africa, di una sorta di nuova schiavitù. Condizioni di lavoro allucinanti, violazioni delle norme di sicurezza, straordinari non pagati, rimpatri forzati in caso di incidenti sul lavoro, difficoltà nell’adire le vie legali per tutelare i loro diritti. Un circolo vizioso perfidamente “legale”: una volta licenziati, gli “apprendisti” hanno sei mesi di tempo per trovare un nuovo lavoro, pena la deportazione. Ma il fatto che siano stati licenziati e che addirittura abbiano intentato causa per ottenere un risarcimento o il reintegro, riduce sostanzialmente le loro chances.
Non solo: poiché in Giappone è obbligatorio essere presenti alle udienze (anche quelle per le cause di lavoro) il rischio di essere deportati/espulsi prima dell’iscrizione a ruolo della causa, o anche nel corso della stessa, è altissimo. “Stiamo dandoci da fare affinché il Parlamento adegui anche questa normativa agli standard internazionali – spiega l’avvocato Mami Nakano – se gli stranieri non posson far valere i propri diritti, è come se i diritti non ci fossero. Inutile adeguare leggi e regolamenti, se poi non si può punire chi le viola”.
Nessun commento:
Posta un commento