Lo spettacolo che offre oggi il
mondo globalizzato è la prova
evidente della verità della nota
affermazione di Keynes: «Sono
sempre le idee e non gli interessi precostituiti
ad essere pericolose sia nel
bene, sia nel male».
Ed è questa la ragione
per la quale, a parer mio, la responsabilità
delle idee non può che
esigere una valutazione di carattere etica,
attraverso la quale soltanto si può
poi individuare la pericolosità delle
conseguenze che ne derivano.
Non corre dubbio, ad esempio, che
nell'ambito del rapporto politica-liberalismo,
l'idea di libertà dei moderni,
nella definizione di Benjamin Constant,
ha avuto il sopravvento rispetto
a quella degli antichi, soprattutto nello
sfociare del liberalismo nella democrazia.
È pur vero che, seguendo invece il
pensiero hegeliano, Giovanni Gentile,
anche per giustificare la sua adesione
al fascismo, indicava la corretta evoluzione
del liberalismo nello Stato come
realtà etica, nella cui eticità si attua la
libertà dell'individuo. Insomma un liberalismo
non di tipo anglosassone e
individualista, ma di tipo tedesco-hegeliano,
dove è la libertà che presuppone
lo Stato e non viceversa. Responsabilità,
questa, nel male.
Quest'ultima interpretazione, nonostante
le riprese di Heidegger e Carl
Schmitt, è uscita però definitivamente
sconfitta dal liberalismo autentico di
Locke e Mill, fino a quello dei più recenti
filosofi, da Ronald Dworkin a
John Rawls, con una decisa opposizione
allo Stato etico e autoritario, in sé
distruttivo della personalità morale degli
individui e della vita della società
civile. È così che un punto fermo definitivo
del liberalismo può essere individuato
nella negazione di ogni usurpazione
della libertà e nella conseguente
sua vocazione democratica,
rappresentata soprattutto dai governi
costituzionali moderni. Responsabilità
dunque, in questo caso, nel bene.
Stranamente è poi proprio John
Stuart Mill ad allarmarsi del principio
liberale dell'eguaglianza come fondamento
della democrazia, dopo la lettura
attenta dell'opera di Alexis de Tocqueville
La democrazia in America. 11
pensiero di Tocqueville è, tuttavia, meno
lineare di quel che non si creda,
poiché egli già aveva intuito, nella sua
esperienza americana, il pericolo che
l'individualismo eccessivo non portasse
all'esercizio della libertà personale
verso scelte di vita autonome, bensì ad
un disperato isolamento, governato
dal conformismo e dall'uniformità di
individui di fatto dipendenti dal governo,
per la loro vita sia emotiva, sia intellettuale
ed economica. Ed è questa
purtroppo una deriva negativa, anche
attuale. Non è un caso che il liberale e
democratico Mill sia stato fra i primi a
ritenere il capitalismo individualista
nemico della libertà, osservando che il
moderno salariato ha poca vera scelta
di occupazione, come poca scelta avevano
gli schiavi nel mondo antico.
Il passaggio attraverso il quale il dominio
del mercato si impone come disciplina
dell'intera società passa peraltro
attraverso varie fasi, dalla Gesellschaftspolitik
dell'«ordoliberalismo»
di Wilhelm Riipke, cioè ad una società
dominata dal mercato concorrenziale,
ma avente come riferimento organizzativo
ideale l'impresa, al neoliberismo
radicale nordamericano nelle sue
diverse sfumature.
Si è così sviluppata la dottrina, A forza, il perdente è sempre chi è sprovapparentemente
semplice, che pone
alla base del neoliberismo la libertà
del mercato e la sua assoluta autosufficienza
al fine di garantire gli scopi fondamentali
della vita, individualmente
raggiungibili con scarso o nullo intervento
pubblica dello Stato. Da questa
premessa è partita la crisi del 2008,
per così dire preparata da tempo e sfociata
nel fallimento del capitalismo e
in sistemi globalizzati di profonde ineguaglianze.
Né Condorcet, che pur aveva individuato
nella prevalenza del denaro e
dei mercati il difetto principale degli
ordinamenti economici liberali, poteva
immaginare che essi sarebbero diventati
il nuovo Leviatano tecno-burocratico
che s'è sostituito alla sovranità
degli Stati.
L'«ordine dell'egoismo» ha così sostituito
il «mito degli uguali», spingendo
la crisi nel cuore stesso delle democrazie,
sì che il potere è stato interamente
monopolizzato dal nuovo Levíatano,
la cui sola regola è costituita dalla
volontà dei singoli, espressa nel diritto
privato del contratto, al di fuori
di qualunque altra disciplina e in definitiva
garante della sopraffazione del
più forte che detiene il nuovo potere.
È agevole oggi, per chi, di fronte alle
gravità della attuale crisi economica
e dei valori, creda (ancora) che l'unico
valore esistente sia quello del libero
mercato e della sua salvifica efficienza,
rimanere indifferente ai diritti in
generale e ai diritti umani in particolare.
Ed è così che l'eguale diritto alla libertà
formulato da Kant s'è trasformato
in una libertà che cancella il diritto.
Quando poi le ineguaglianze, la miseria
e i fallimenti diventano addirittura
la base dello sviluppo del sistema,
fondato non più sul rispetto dei diritti,
ma sull'ordine dell'egoismo, si affacciano
nuove forme di «democrazie illiberali»,
cioè di «non democrazie». Ciò
che avviene, in conclusione, secondo
le parole di Femand Braudel, quando i
contromercati, cioè liberi e senza regolamentazione,
come quelli attuali globalizzati,
diventano il «regno dell'arrangiarsi
e del diritto del più forte. E
qui che si installa il dominio del capitalismo,
ieri come oggi, prima e dopo la
rivoluzione industriale». Ma, aggiungo
io, laddove vige il predominio della
visto del potere, asimmetrico per sua
natura, se solo affidato alla volontà delle
parti; l'unico a cui l'ostinata ideologia
neo-liberista continua ad attribuire
valore.
Sta, peraltro, emergendo, maturata
in un processo storico tutt'ora in corso,
un'esigenza sempre maggiore di
passaggio dalla priorità dei doveri dei
sudditi di tutte le multiformi sovranità
dei mercati alla priorità dei diritti dei
cittadini ed un abbandono dell'etica
ontologica dei doveri verso un'etica
consequenzialista che consideri le conseguenze
dannose che il perseguire e
realizzare determinate irresponsabili
idee può provocare alle società.
Amartya Sen ha dato di queste prospettive
lucidissime lezioni. Ed è esattamente
il contrario di quel finto moralismo
che ha gabellato, come unica soluzione
alla crisi economica, la politica
di rigore e austerità, che ha condotto
ad una deflazione senza apparenti
vie d'uscita.
È così che si va affermando concretamente
nel mondo globalizzato una
costellazione di diritti riconosciuti sui
beni pubblici, sui beni comuni, sottratti
all'autonomia privata e alla logica
dei mercati o dei contromercati. E si
tratta di beni pubblici globali sui quali
esiste un'ampia letteratura ed una serie
di iniziative internazionali già in atto.
Alla globalizzazione economica si
dovrà accompagnare un'effettiva globalizzazione
giuridica, eliminata la paranoia
privatistica dell'attuale, opaca,
ineffettiva lex mercatoria che anche semanticamente
si esaurisce nella legge
dei mercati, cioè in un «non diritto»,
indifferente ai due più gravi problemi
creati dalla globalizzazione: la terribile
povertà che sta dilagando nel mondo
e la irreversibile crisi ecologica che ha
risvegliato in René Girard e in Martin
Rees visioni apocalittiche, soprattutto
per quel che concerne il clima e le minacce
di guerre sul destino dell'umanità.
Ma l'idea di libertà nei diritti avrà il
sopravvento.
C RIPRODUZIONE RISERVATA
Antidpazione
L'intervento
di Guido Rossi
al Festival della
Mente di Sarzana:
contro la visione
economica di chi
esalta il predominio
del più forte
Il giurista
? Qui a fianco,
un'illustrazione di
Alberto Ruggieri
(Illustration
Work/Corbis). In
basso a sinistra, il
giurista milanese
Guido Rossi
? Nato nel 1931,
Rossi è professore
emerito di Diritto
commerciale della
Bocconi. È stato
presidente della
Consob, senatore
della Sinistra
indipendente,
presidente di Telecom
Nessun commento:
Posta un commento