Come si fa a non stare dalla parte dei lavoratori dell’Alcoa? Non è certo colpa
dei salari operai se la multinazionale americana sta chiudendo alcuni
stabilimenti non solo in Sardegna, ma in Europa (dismissioni sono in corso anche
in Spagna).
Ma la vera domanda viene a questo punto: posto che una volta
tanto il costo del lavoro, la produttività, l’assenteismo, gli scioperi non
c’entrano nulla, che cosa si può fare?
Per rispondere bisogna
ricapitolare alcuni dati di fondo della situazione dell’Alcoa. Lo stabilimento
sardo di Portovesme finora è rimasto in Sardegna per due ragioni di fondo.
Primo, perché la domanda di alluminio non era fiacca come oggi.
Secondo,
perché lo Stato italiano, che fa pagare l’energia uno sproposito (+30% rispetto
alla già alta media europea) all’Alcoa concedeva tariffe superagevolate,
naturalmente facendole pesare sulla bolletta di tutti noi, famiglie e imprese
che pagano l’energia elettrica a prezzo pieno. Questo avveniva per ragioni
puramente politiche, ossia per salvare voti e posti di lavoro, o meglio per
salvare voti pagandoli in posti di lavoro. Ma pagandoli quanto? Un calcolo molto
rozzo, basato sulla spesa totale negli ultimi 15 anni e sul numero di posti di
lavoro salvati, suggerisce che ogni posto di lavoro sia costato ai contribuenti
circa 200 mila euro l’anno. Una follia, vista la leggerezza delle buste paga
degli operai.
Ora le autorità europee hanno stabilito che quelli erano
aiuti di Stato (si vedeva a occhio nudo, ma abbiamo finto di dover attendere un
pronunciamento ufficiale) e la multinazionale americana ha capito che non c’è
più trippa per gatti. Smantellerà un po’ di stabilimenti in Europa, e ne
costruirà uno megagalattico in Arabia Saudita, ovvero in un posto dove è più
conveniente produrre.
Ora torniamo alla nostra domanda di partenza. Che
cosa si può fare?
Mi spiace essere crudo, ma la sola risposta che mi
sento di dare è: niente. O meglio: molto di assistenziale e nulla di
industriale. Siamo in Europa, e gli operai che perdono il lavoro hanno diritto a
qualche forma di sostegno del reddito, e a essere aiutati nella ricerca di un
posto di lavoro nuovo. Ma non raccontiamoci la fiaba che spingere un’azienda
straniera a produrre in perdita sul nostro suolo sia «politica industriale», o
sia una scelta razionale. La realtà è che produrre in Europa è sempre meno
conveniente, per l’incredibile matassa di vincoli e regolamenti che ci siamo
dati negli anni. E in alcuni paesi europei, fra cui l’Italia, l’energia (in
particolare elettrica) costa troppo, come ha giustamente fatto notare il
presidente di Confindustria Giorgio Squinzi.
Il guaio, tuttavia, è che
quello dell’energia è solo un sovraccosto del produrre in Italia, uno dei tanti.
Accanto all’energia ce ne sono innumerevoli altri: tempi della giustizia, tempi
di pagamento della Pubblica Amministrazione, adempimenti burocratici,
corruzione, prestiti bancari, tasse sul lavoro, tasse sulle imprese. Per questo,
a partire da oggi, «La Stampa» - insieme con la Fondazione «David Hume» -
proporrà una serie di dossier sui sovraccosti del produrre in Italia, con
l’obiettivo di costruire - alla fine - un super-indice che possa dare un’idea
quantitativa di qual è il sovrapprezzo che un’impresa deve pagare per operare in
Italia anziché in un altro paese appartenete all’Ocse, l’organizzazione che
riunisce le 34 economie più sviluppate del pianeta.
Io capisco che, non
essendoci un solo euro in cassa e non riuscendo a tagliare né i costi della
politica né gli sprechi, i nostri governanti siano affezionati all’idea delle
riforme a costo zero. Ma mi permetto di metter loro una pulce nell’orecchio: se
vogliamo che la gente torni a trovare lavoro non c’è riforma a costo zero capace
di raggiungere l’obiettivo in tempi ragionevoli. Le riforme che costano nulla
vanno fatte senz’altro e prima possibile, ma è ingenuo illudersi che possano
bastare se non si abbassa - e di molto - il costo del produrre in Italia.
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