Non può passare per un rituale. La presentazione del Rapporto Svimez è da tempo considerata un appuntamento fisso per fare il punto sul Mezzogiorno – e ad alcuni serve a rispolverare un po’ di quel meridionalismo dimenticato. Si discute di politica economica nazionale, e nel parterre si può incontrare persino un leghista come Giorgetti, mentre fuori il suo collega Calderoli continua ad abbaiare per la soppressione dell’ente. Con l’eco mediatica dei suoi numeri aggiornati, tutti intervengono e si chiedono per un momento “che fare?”. Subito dopo, troppi finiscono per tacere, pensando che in fondo tutto è stato già detto e scritto, e perfino in modo inconsapevole o inconfessabile distolgono lo sguardo altrove, come dopo un lungo déjà vu. Solo che stavolta non c’è niente di già detto e già visto. Non si è mai vista, almeno da quando abbiamo a disposizione dati comparabili, una spirale di arretramento economico e sociale, in un’area di venti milioni di abitanti, così allarmante.
Nei cinque anni di crisi il Sud ha perso il 10% del Pil: una decimazione, come una guerra. Si sta ridisegnando la mappa della struttura produttiva, con il rischio di scomparsa nell’area di interi comparti di industria nazionale: ancora ieri le cronache drammatiche sull’ILVA, nei giorni scorsi su ALCOA e sull’intera vicenda FIAT. Il cedimento dell’industria rischia di far crollare l’intera economia meridionale: troppo piccola è la quota di export per compensare la debolezza della domanda interna; troppo forte è la dipendenza dagli appalti di una P.A. che, senza risorse, blocca i nuovi e ferma i pagamenti – con effetti drammatici nel settore delle costruzioni, che ci restituisce quella figura inedita del piccolo imprenditore precario, appena poco meno dei suoi lavoratori. È una decrescita amarissima, quella descritta dalla Svimez, che si riflette nei comportamenti sociali, in quei mutamenti – cioè, peggioramenti, scoraggiamenti – che ormai assumono un carattere strutturale: con la spirale demografica negati, coi consumi che svelano l’impoverimento diffuso, col mercato del lavoro che mercato non è, coi processi formativi interrotti. La carenza di occasioni di lavoro per giovani e donne (meno di un terzo lavora, e circa il 40% sono cd. Neet), innesca un circolo vizioso di sottosviluppo che, con la dinamica di depauperamento del capitale umano nell’area (tra “fuga” e “spreco” dei talenti), brucia presente e futuro.
L’auspicio formulato dal Presidente Napolitano proprio ieri, nel suo messaggio alla Svimez, di un rinnovato impegno per lo sviluppo pur nel quadro di una politica di rigore che coinvolga soprattutto i “più abbienti” può essere perseguito solo con un deciso cambio di rotta nella politica economica. Perché già l’impatto delle ultime manovre, da Tremonti a Monti, è stato fortemente “asimmetrico”: le maggiori entrate sono equamente distribuite tra le aree, mentre al Sud è concentrata la riduzione della spesa pubblica. Arretra così la già debole “statualità” nel Mezzogiorno, sempre meno in grado di garantire l’effettivo esercizio dei diritti di cittadinanza con livelli essenziali di servizi e prestazioni pubbliche. Crolla, soprattutto, la componente più piccola e preziosa della spesa, quella in conto capitale, che ha già subìto un declino decennale e al Sud non ha mai avuto il carattere di “aggiuntività” (previsto in Costituzione e “pattuito” con l’Europa) necessario ad innescare un reale processo di convergenza. E lo ha riconosciuto nel corso del dibattito, con l’onestà intellettuale che lo contraddistingue, lo stesso Ministro per la coesione territoriale, Fabrizio Barca. Certo, molto del cambiamento dipende dall’Europa, a partire da un nuovo orizzonte strategico con l’opzione mediterranea. Ma l’Europa continua a mostrare cecità sulle cause profonde della crisi dell’Eurozona e miopia sulle soluzioni per uscire dalla recessione delle sue aree meridionali. Le conseguenze interne dei vincoli sanciti nel Fiscal compact, infatti, in mancanza di una politica economica comune per ridurre gli squilibri delle bilance commerciali, sono destinati a perpetuare l’avvitamento recessivo. La cd. golden rule per riavviare gli investimenti, a cominciare da quelli degli enti locali, diventa dunque un obiettivo imprescindibile.
Sul piano nazionale, tuttavia, anche se fossero più eque e meglio congegnate le azioni – regole del mercato del lavoro, liberalizzazioni – cui è ridotta la politica economica generale del governo, queste non basterebbero comunque. Il Rapporto Svimez offre un ampio spettro di politiche industriali possibili per attivare processi di internazionalizzazione e innovazione, salvaguardando e rilanciando l’esistente ma anche favorendo la penetrazione in settori “nuovi” (dall’agro-ambiente all’industria culturale) in grado creare “nuove” opportunità di lavoro (autonomo, dipendente e cooperativo), specie per i giovani ad elevata formazione. D’altra parte, l’impegno sui servizi diventa una leva “democratica” anche sul versante occupazionale. Perché senza la prospettiva del lavoro buono – che liberi dal ricatto del bisogno e dell’intermediazione impropria, che ravvivi le forze migliori della società meridionale, invece di costringerle alla marginalità e alla fuoriuscita o di regalarle all’eccezionalità degli angoli di paradiso che ogni inferno nasconde – la nascita (o il consolidamento) di una classe dirigente davvero nuova, essenziale per il Sud, diventa più difficile, se non impossibile.
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