Al professor Mauro Magatti, sociologo dell'Università Cattolica di Milano, piacciono le sfide concettuali. Ha deciso di definire “capitalismo tecno-nichilista” il sistema sociale ed economico in cui viviamo. La sfida non è tanto nella prima parte del lemma, quanto nel mettere a tema il nichilismo – concetto filosofico, di solito relegato ai dibattiti etici – per vedere quanto questa concezione dell'uomo, della sua libertà e verità determini l'organizzazione economica e sociale.
Reggio Emilia, Biblioteca Interdipartimentale di Ateneo - Mediateca, giovedì 29 aprile 2010
Il professor Mauro Magatti, sociologo dell'Università Cattolica di Milano, piacciono le sfide concettuali. Ha deciso di definire “capitalismo tecno-nichilista” il sistema sociale ed economico in cui viviamo. La sfida non è tanto nella prima parte del lemma, quanto nel mettere a tema il nichilismo – concetto filosofico, di solito relegato ai dibattiti etici – per vedere quanto questa concezione dell'uomo, della sua libertà e verità determini l'organizzazione economica e sociale: come desideriamo, produciamo, consumiamo, ci rapportiamo agli altri. Feltrinelli ha pubblicato nella collana di saggistica “Campi del sapere” il libro in cui Magatti sviscera il suo argomento: “Libertà immaginaria - Le illusioni del capitalismo tecno-nichilista” (432 pagine, 30 euro).
Nell'introduzione scrive: “Il tema di fondo del libro è quello della libertà. Il capitalismo tecno-nichilista, infatti, nasce e si sviluppa attorno a un immaginario della libertà che si forma tra la fine degli anni 60 e l'inizio degli anni 80. Non si possono capire questi trent'anni se non tenendo in considerazione questa trasformazione che è insieme sociale, culturale e antropologica”. Un primo spunto: la rivoluzione libertaria dei Sixties messa a base non solo del mutamento dei costumi, ma di tutta l'organizzazione sociale, compreso il tipo di “nuovo” capitalismo che dopo quegli anni si sviluppa. Oggetto del libro è dunque una “diagnosi dello stato della libertà nel quadro della configurazione sociale contemporanea. Ciò che chiamo capitalismo tecno-nichilista è un nuovo rapporto che si è andato costruendo tra individui progressivamente più liberi e mondi sociali sempre più organizzati e potenti”. Libertà (immaginaria) della persona ed economia, semplificando un po'. Un tema non distante da quell'approfondimento di “alcuni aspetti dello sviluppo integrale dell'uomo alla luce della verità” che Benedetto XVI promette nella sua nuova enciclica, che sarà presentata il 7 luglio. Quello di Magatti è un libro di impianto scientifico, richiede una strumentazione critica adeguata. Allo stesso tempo, l'impressione è di trovarsi davanti al tentativo nuovo, almeno in campo cattolico, di provare a coniugare la questione antropologica e i “paradigmi economico-finanziari dominanti negli ultimi anni”, come li ha chiamati il Papa, che hanno mostrato la corda nell'attuale crisi.
La prima domanda che viene da fare a Mauro Magatti, nel suo studio di preside della facoltà di Sociologia della Cattolica, parte da qui: non le sembra che quando si parla di chiesa ed economia ci sia come un aut-aut implicito e un po' banale: o i fiduciosi nel pensiero sociale o i fiduciosi nel mercato, la “Populorum progressio” contro la “Centesimus annus”. Per stare a due recenti interventi dall'area linguistica del Papa, le critiche al capitalismo del giurista Ernst-Wolfgang Böckenförde e del vescovo di Monaco, Reinhold Marx. Oppure la difesa della libertà del mercato condotta da Michael Novak anche di fronte alla crisi finanziaria. “E' un'impostazione vecchia, una banalizzazione appunto. Uno schema fuori mercato che non regge più”, risponde Magatti.
“La verità è che siamo tutti molto indietro, non solo i cattolici. In trent'anni è cambiato tutto: globalizzazione, finanza, tecnologia e poi biotecnologia, ovvero la tecnologia applicata direttamente all'essere umano. Ciò che certe avanguardie filosofiche del 900 avevano intuito, Nietzsche o Heidegger, ha trovato conferma sociale. Il nichilismo oggi è il substrato ideologico di un contenuto tecnologico ed economico, che si dà per se stesso. O pretende di darsi per se stesso”. Argomenta Magatti che oggi nessuna posizione culturale o etica riesce a reggere di fronte a questo sviluppo che si dà le proprie regole da solo: “Prendiamo la crisi: qualsiasi giudizio in termini solo morali, ‘ci sono stati i disonesti', è evidentemente insufficiente. Ma anche gli economisti, di fatto, al di là della ‘mano invisibile del mercato' non riescono ad andare”. Vale anche quando le critiche morali vengono dalla chiesa, ammette il sociologo. Infatti, scrive nel libro, “il contributo dato dal modello di sviluppo occidentale al cammino di libertà rimane senza precedenti nella storia dell'umanità”. Sbagliato condannarlo in blocco. Ma allo stesso tempo i veri “amanti della libertà non sono gli spensierati ottimisti che spadroneggiano sui mezzi di comunicazione di massa… amare la libertà significa sapere che la libertà è costosa e difficile, un bene che va desiderato e protetto, prima di tutto da se stessi”.
Come coniugare, allora, una libertà non disgiunta dalla verità (nel libro si legge che “tutta la vicenda moderna ruota attorno al nodo antropologico della libertà e al suo tormentato rapporto con la ‘verità'”) e il “capitalismo tecno-nichilista”? Bisogna partire, risponde, dalla scoperta che è alla base della modernità: la “volontà di potenza”. Non si può negarla. Quando la si nega, anche con le buone intenzioni morali, si fa un'astrazione, non regge. Il soddisfacimento dei bisogni, il profitto, il desiderio, la volontà “egoistica” di avere fanno parte dell'uomo e della società. “Che l'uomo sia una ‘macchina desiderante' non l'ha inventato il mercato. Il capitalismo, al limite, l'ha reso oggettivo”. Il punto è vedere dove tutto questo diventa un circolo vizioso.
Per capire la rivoluzione in corso lei utilizza alcune parole che sembrano appartenere alla filosofia più che alla sociologia, verrebbe da definirle “ratzingeriane”. Parla di “restringimento del logos”. E di una “rivalutazione del pathos” eccessiva. Soprattutto, tutto questo influenza non solo la nostra psiche e la nostra visione etica, ma anche il tipo di sviluppo: “Ridefiniscono per intero la questione sociale nelle società avanzate”. Il capitalismo tecno-nichilista si basa, scrive anche Magatti, su un “paradigma neoevoluzionista”: “L'idea cardinale è la seguente: l'ordine, che pure si osserva, non esprime un qualche disegno centralizzato, ma è l'esito casuale di equilibri provvisori e precari che si susseguono senza alcuna direzione, semplicemente sulla base di dinamiche interattive governate da criteri di adattamento e selezione. L'ordine esiste solo come mero effetto emergente dallo stesso affermarsi”.
Semplificando un po', è il quadro relativista, atomizzato, individualistico in cui ci muoviamo e costruiamo i “feticci” della nostra percezione di libertà. Quali sono infatti i canoni della libertà (personale, economica, relazionale) tipici della nostra epoca? La “liquidità” sociale, l'“etica della mobilità” applicata indifferentemente ai beni e agli individui, una vera e propria “economia affettiva”. Fino a quel “desiderare oltre ogni limite” che determina – dalla psicologia ai comportamenti, ai consumi – l'uomo contemporaneo. O ancora, seguendo l'analisi di Magatti, fino alla “nascita della bioeconomia”. In altre parole, lei dice che va messo per prima cosa in discussione “l'immaginario della libertà”. L'uomo “crede” di essere libero, “vede” delle immagini di libertà e a quelle sottostà. E ciò è perfettamente funzionale (lo scambio è continuo) al sistema tecnico che organizza il tutto. Dunque, pare di capire che il vero problema stia a monte: nella cultura, nell'immagine di ragione, di individuo, di “verità”, di socialità, vero che si ha. Magatti ci spiega che in effetti è così, ciò che è in discussione nel nostro tempo non è tanto un sistema economico, o gli eventuali accorgimenti che possano indirizzarlo più o meno. “Il rischio vero è che, schiacciati come siamo in una prospettiva esistenziale di ‘immediatezza' – i desideri e la loro soddisfazione devono essere immediati, il consumo deve essere immediato, perché sottostà a quel desiderio e alimentare una nuova produzione – il rischio sia di perdere la propria libertà”. Il nostro sistema culturale ed economico ha prodotto insomma una vera “dittatura del desiderio”, si potrebbe dire per usare un'altra formula ratzingeriana. Magatti ne utilizza in realtà un'altra, di ascendenza lacaniana: “Economia libidica del plusgodere”.
E la “macchina desiderante” potenziata dalla tecnica non ci ha messo molto, negli ultimi decenni, a creare un nuovo tipo di economia: l'economia applicata direttamente al corpo, alla vita. Magatti la descrive attraverso le parole del sociologo inglese Nikolas Rose: “Come esseri umani ci percepiamo in modo nuovo come creature biologiche, come sé biologici, tanto che la nostra esistenza vitale diventa un nuovo oggetto di governo, l'oggetto di nuove forme di autorità e di professionalità, un campo particolarmente interessante di conoscenza, un territorio in espansione per lo sfruttamento bioeconomico… A una velocità impressionante, questo paradigma scientifico fa nascere nuovi settori economici, inimmaginabili solo fino a qualche anno fa”.
“In tutto questo c'è un'eredità che, anche attraverso l'apparente ribaltamento rappresentato del neoliberismo, viene dagli anni Sessanta, da Deleuze, dalla distruzione del soggetto”, commenta Magatti. Oggi, spiega, è tutto questo che va messo in discussione.
Difficile credere che la risposta da parte della chiesa possa essere un semplice aggiornamento della dottrina sociale otto-novecentesca, riferita a tutt'altro tipo di capitalismo e di socialità. Occorre una riflessione che coniughi aspetti diversi, che parta dalla cultura, superando un po' di moralismo. Ma soprattutto cambiando l'armemantario interpretativo. Ad esempio, gli chiediamo, la “solidarietà” come concetto e precetto pressoché unico è sufficiente a giudicare il “capitalismo tecno-nichilista” per come ce l'ha descritto? “Non credo possa bastare. Anche perché è concetto ottocentesco, quando c'era un ‘solidum' da mettere insieme. Nella società atomizzata rischia di essere avvertito come astratto, al massimo nobilmente minoritario. Non vuol dire che la solidarietà non sia necessaria, ovviamente. Ma serve forse immaginare anche modi di pensare lo scambio sociale più adatti all'oggi. Il non profit, tanto per dare un'idea della direzione in cui guardare. Credo che ci sia forse anche un salto generazionale da compiere, a livello di analisi, di riflessioni”. Ma soprattutto, riflette, è l'idea di libertà che va messa in gioco, come responsabilità: “Se siamo liberi, dobbiamo anche saper decidere di non fare qualcosa che si potrebbe fare. Vale per la bioetica, ma deve valere anche per l'economia, le relazioni sociali, la soddisfazione dei desiderio. La forza di un pensiero differente, libero, va misurata su questa prospettiva”.
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