Dittatori e primi ministri di Paesi europei, il regista simbolo della sinistralibertaria spagnola e il patriarca dell’estrema destra francese, il calciatore più famoso del mondo e il pilota di Pescara, il presidente appena eletto per ripulire la Fifa e il padre del premier britannico che ha convocato un vertice contro l’elusione fiscale. È il tradimento delle élites transnazionali; compresi coloro che, come il clan Le Pen, millantano di stare dalla parte del popolo e di combatterle, le vecchie élites.
Intendiamoci: una lista non è una sentenza; e aprire un conto off-shore non è di per sé un reato (anche se spesso serve a commetterlo, e per un politico rappresenta comunque un vulnus alla fiducia del suo Paese e dei suoi elettori). Ma fin da ora i Panama Papers si annunciano come lo scandalo più grave dell’era della rivoluzione digitale, in cui è divenuto molto più difficile occultare gli arcana imperii, i segreti del potere; e per una volta la rete e i giornali hanno marciato di pari passo, i guastatori elettronici e i reporter d’inchiesta si sono completati a vicenda.
Il quadro — da verificare — che si intravede è devastante. Nel momento più nerodella crisi, le punte di diamante dell’establishment globale mettevano al sicuro i loro cospicui risparmi; a volte con complesse soluzioni a prova di indagine, a volte con trucchetti da letteratura minore tipo i lingotti d’oro intestati al maggiordomo. Fino al caso più clamoroso: le grandi banche tedesche, salvate con il denaro dei contribuenti, offrivano ai clienti di riguardo la via d’uscita dei paradisi caraibici, abbandonando il ceto medio a pressioni fiscali oltre il 40%, che nessuna economia può sostenere, tanto più in periodi di magra come questo. Ed è una modesta consolazione che i primi ministri democraticamente eletti debbano dimettersi, mentre i dittatori — che restano tali anche quando confermati da un plebiscito — possono permettersi di dare la colpa alla Cia.
Non dobbiamo nasconderci che nella lista ci sono anche italiani. C’è da augurarsisinceramente che le smentite di queste ore siano confermate dai fatti, che davvero — come annunciano giornali economici — almeno la metà degli 800 nomi avessero già chiesto di riportare i capitali in Italia; il che appiana l’aspetto giudiziario ma non cancella il giudizio morale. Resta un dato: il sistema mediatico viene spesso rappresentato come legato alla politica; e qualche conferma la tv pubblica continua a darla. Ma in realtà non c’è nulla di più facile che attaccare un politico; subito scattano gli applausi, nei talk-show e in rete. È più difficile avere un rapporto critico con il potere economico e finanziario. Non è immediato trovare una linea opportunamente mediana tra il «troncare e sopire» e la rappresentazione demagogica per cui ognuno è corrotto o corruttibile; tra le due semplificazioni per cui o sono tutti innocenti, o sono tutti colpevoli (vale a dire, anche qui, che nessuno è davvero colpevole). Distinguere, verificare, scavare è sempre più faticoso; ma è l’unica strada che abbiamo davanti. Proprio per il rispetto dovuto a quei ceti medi alle prese con la crisi, a quegli imprenditori che si giocano la partita ogni giorno in azienda accanto ai loro operai e impiegati, a quell’opinione pubblica che dalle notizie panamensi si sente danneggiata e beffata.
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