Un orientamento meritocratico, seppur venato di solidarismo, è un patrimonio diffuso nel Nordest. Tuttavia, scoprire che nel lavoro ben il 90,1% della popolazione condivide questo criterio, racconta di una sua estensione che va oltre le aspettative.
Il lavoro è sicuramente attraversato da trasformazioni profonde.
Il lavoro è sicuramente attraversato da trasformazioni profonde.
E, com’è comprensibile, in questi anni di crisi, l’attenzione si è concentrata esclusivamente sulle imprese in difficoltà, chiusure, fallimenti e disoccupazione. Tuttavia, nel mentre questi fenomeni accadevano, via via si diffondevano nuove visioni del fare impresa. Flessibilità e adattamento, velocità e competitività sono ormai le parole d’ordine, i criteri con cui vengono definite le strategie delle aziende. Assistiamo sempre più a una contaminazione fra settori produttivi e a una rottura dei confini tradizionali. Funzioni terziarie che entrano nelle fabbriche, manodopera che diventa “mentedopera”, macchine e app digitali che disintermediano lavoratori. Sempre più si parla di Industria 4.0, di fabbrica intelligente e digitalizzata, di piccole imprese che sviluppano reti fra loro e costituiscono hub produttivi. Dunque, mutano le filosofie, si ridefiniscono le vision aziendali e l’organizzazione del lavoro. Che il sistema produttivo si stia (più o meno tutto e più o meno velocemente) incamminando su questi nuovi sentieri è testimoniato dai dati dell’Istat e Bankitalia, così come dalle istituzioni internazionali: tutti rilevano una leggera ripresa, dopo lunghi anni di difficoltà, e il Nordest presenta performance leggermente superiori alla media nazionale.
Per converso, decisamente una minore attenzione è dedicata all’altra metamorfosi che interessa il lavoro: gli orientamenti culturali della popolazione e dei lavoratori stessi. Il cambiamento che attraversa il mondo produttivo non sarebbe stato possibile in assenza di un capitale umano e professionale adeguato, in grado di recepire le necessità di adattamento a nuovi sistemi organizzativi. Sotto questo profilo, spesso si lamenta (correttamente) che i lavoratori possiedono titoli di studio inferiori alla media dei loro colleghi europei, che meno di loro sono all’interno del sistema di formazione continua. Si tratta di gap che devono essere assolutamente colmati. Ma è limitativo considerare solo il titolo di studio come misura delle competenze presenti. Così quasi mai ci s’interroga sulle culture professionali, se e in che misura siano mutati i valori e i criteri verso il lavoro. Le ricerche (Community Media Research) testimoniamo come siamo di fronte a cambiamenti profondi nelle culture del lavoro, in particolare fra le giovani generazioni.
Il lavoro è progressivamente inteso come un percorso in cui sviluppare una crescita professionale, piuttosto che come un mero posto di lavoro. La dimensione della gratificazione personale è data non solo dal salario percepito, ma anche dalle opportunità di crescita, dalle relazioni sociali e dal clima che si possono costruire in azienda, la possibilità di identificarsi con l’impresa in cui si lavora: sono tutti aspetti giudicati importanti e attraverso i quali si valuta un’opportunità occupazionale. Dunque, la soggettività nel lavoro entra come un elemento discriminante per le persone, diviene un criterio fondativo. A parità di condizioni economiche, la scelta nei confronti di un’opportunità occupazionale andrà verso ciò che potrà consentire uno sviluppo di carriera, una progressione nelle competenze e nelle responsabilità, la possibilità di realizzare relazioni positive e appaganti. Tutto ciò cambia anche i criteri con cui valutare lo sviluppo professionale. Posti di fronte alla scelta se il compenso per un lavoro non debba discostarsi più di tanto, indipendentemente dalle capacità personali, oppure invece debba essere remunerato di più chi possiede maggiori capacità, la popolazione e i lavoratori non hanno dubbi: prevale quest’ultima opzione.
Dunque, un orientamento più espressamente “egualitarista” coinvolge una quota decisamente marginale della popolazione del Nordest (2,7%), ma che trova nel Friuli Venezia Giulia un particolare consenso (16,7%) rispetto al Trentino Alto Adige (1,0%) e al veneto (2,4%). A questi si aggiunge una quota di incerti che non esprime una propria valutazione (7,2%). Gli “egualitaristi” sono leggermente più presenti fra le giovani generazioni, gli operai, quanti hanno un titolo di studio basso. Soprattutto, intuitivamente, fra i disoccupati. Viceversa, su un criterio contrassegnato dalla “meritocrazia” si addensa ben il 90,1% degli interpellati, quota che si eleva ulteriormente in Trentino Alto Adige (97,6%) e in Veneto (93,6%), mentre in Friuli Venezia Giulia scende all’80,9%. Oltre all’elevato livello di accordo manifestato, l’aspetto interessante è dato dalla sostanziale assenza di fratture all’interno degli interpellati. A segnalare come siamo di fronte a una condivisione di fondo che va oltre lo stesso mondo del lavoro. La possibilità di essere valutati sulla base delle proprie capacità, della professionalità posseduta è un’aspirazione più diffusa di quanto non si pensi. In fondo, segnala la necessità di lasciare alle spalle raccomandazioni, privilegi, consorterie. Di potere liberare le energie presenti e di poter valorizzare chi può effettivamente offrire un apporto positivo. Fin qui le aspettative, si dirà. Poi, nella pratica, soprattutto in certi ambiti del mondo del lavoro come nel pubblico impiego, con difficoltà si accetta di essere valutati e misurati. Ciò non di meno, è diffuso il bisogno di respirare un’aria nuova, valori diversi. Percepire che si possa concretizzare una discontinuità non solo nel modo di produrre e nel lavoro, ma anche nei criteri e nei valori che orientano le scelte: affermare il merito come opportunità di crescita.
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