Il sociologo ed ex operaio Aris Accornero coniò diversi anni fa un’espressione fulminante per riassumere l’itinerario politico-culturale delle tute blu del Novecento italiano: «Sono state macchine per la lotta di classe». Detta da uno che di operai e sindacati se ne intende la definizione valeva e vale moltissimo e non a caso mi è tornata immediatamente in mente leggendo i risultati dell’indagine resa nota ieri dalla Federmeccanica e affidata alla supervisione scientifica di Daniele Marini. Il campione è relativamente ristretto (1.123 intervistati) ma la tendenza che emerge è netta.
Il lavoro sta divorziando dall’ideologia che lo ha tenuto prigioniero lungo tutto il secolo scorso e per buona parte della prima decade del nuovo. Gli operai smettono di essere strumento di lotta politica e diventano persone, si liberano dal copione che l’ideologia aveva scritto per loro obbligandoli a sentirsi comunque e solo merce e a nutrire ostilità pregiudiziale nei confronti del padrone. L’indagine della Federmeccanica ci dice invece che l’operaio ha preso a identificarsi con il proprio lavoro e anche con l’azienda di cui fa parte. Laddove anche l’imprenditore riesce a creare un clima comunitario e a innovare sul piano dei rapporti quotidiani il risultato è che il successo dell’impresa diventa un obiettivo comune.
Il resto, ovvero la regolazione del conflitto di interessi che divide il proprietario dal dipendente, è affidata al negoziato contrattuale che più si svolge a ridosso dei problemi concreti e del confronto con il mercato più è veritiero, più si libera anch’essa dalle angustie dell’ideologia. Nelle piccole imprese molte delle tendenze individuate da Marini sono realtà da sempre e non è un caso che i proprietari definiscano le persone che hanno a busta paga come dei «collaboratori» e non come dei dipendenti. Da segnalare infine come sul piano valoriale cadano storici steccati tra il lavoro manuale e il ceto medio produttivo e il riconoscimento del merito come strumento di giustizia sociale lo testimonia.
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