Il Financial Times accusa e dimostra che l’economista francese Piketty ha fondato la sua teoria riguardo alla correlazione tra capitale ed ineguaglianze su dati e calcoli sbagliati. L’anno scorso altri due economisti, Rogoff e Reinhart, anche loro accademici, dopo essere stati lodati universalmente per aver dimostrato che la crisi attuale è diversa da quelle passate, sono stati accusati di aver calcolato male i dati. Va da solo che le prove dei loro errori erano inconfutabili. Morale: entrambe le teorie non sono supportate dai dati.Il mondo dell’economia e della politica ha un disperato bisogno di certezze, ecco perché chiunque applica i principi dell’archeologia all’economia, e cioè raccoglie statistiche millenarie e sulla base di queste sviluppa una teoria, diventa istantaneamente un profeta. Il sogno di qualsiasi politico, anche di quelli che si professano ‘rivoluzionari’ è di trovare una formula fissa per fare il proprio mestiere. E questo spiega perché Piketty è stato ricevuto alla Casa Bianca dove ha fatto lezione ai collaboratori di Obama e Rogoff e Reinhart hanno tenuto banco a Davos.Se fosse vero che l’economia è una scienza esatta, che insomma poggia sui numeri e sulle formule matematiche, allora non avremmo crisi economiche, non ci sarebbero state neppure tante guerre e la gente vivrebbe felice e contenta.Come la sociologia, l’economia è una disciplina che poggia sui rapporti umani e quindi è spesso imprevedibile, volerlo negare peggiora il funzionamento della cosa pubblica e prova ne è la crisi attuale. Il fiasco dell’euro, la crisi del debito sovrano, le difficoltà contingenti dei paesi della periferia sono frutto di scelte sbagliate a livello politico, giustificate da principi economici enunciati dalla classe politica come fossero leggi fisiche.In Italia, come in gran parte dell’Unione Europea, il dibattito sui vantaggi e svantaggi dell’euro non c’è stato perché il fascino della ‘scienza economica’ ha fatto presa su tutti.
Così tutti, ma proprio tutti, sono stati a favore della moneta unica. Fatta eccezione del Regno Unito, della Svezia e Danimarca, nessuno ha apertamente sfidato il dogma di Bruxelles riguardo alla moneta comune. L’euroscetticismo era una stravaganza ed apparteneva agli eccentrici britannici.Identico discorso vale per la politica d’austerità e per le riforme, dal fiscal compact fino al fondo salva stati, imposti per arginare la crisi del debito sovrano. Il fronte scientifico, così secondo me va descritto l’esercito di economisti e politici che pensano che l’economia sia una scienza matematica, è ancora ben compatto in Italia, ma dopo quasi un decennio di recessione qualcuno ha iniziato a romperne le file e ad predicare l’uscita dall’euro. Il battibecco tra pro e contro euro, però, verte tutto su dati, formule e statistiche. Insieme al carattere vetriolico, ciò che accomuna i difensori e gli accusatori dell’euro è la certezza di aver ragione sulla base di principi economici infallibili. Dati, formule, statistiche che in fondo servono a ben poco perché ciò che veramente conta è l’interazione tra gli europei. Se gli abitanti della periferia avessero accettato la deflazione interna ed avessero ridimensionato le loro aspettative l’austerità sulla carta, si badi bene sulla carta, avrebbe funzionato. Ma quei numeri, quelle statistiche sono uomini, donne, bambini, famiglie, villaggi, città, è gente vera che non può essere riassunta con una serie di numeri.Nessuno vuole affamare l’Europa mediterranea, come nessuno vuole derubare il ricco nord Europa ma la ‘scienza economica’ ha fatto proprio questo.Per voltare pagina bisogna avere il coraggio di mettere da parte statistiche e numeri e scendere in strada per parlare con la gente. La Nigeria è da poco diventata la nazione più ricca d’Africa, ce lo dice il suo Pil, ma la sua popolazione è tra le più povere di quel continente.Osservare la realtà, ecco cosa dobbiamo fare, come facevano gli economisti classici, Smith, Ricardo e Marx. Quelli moderni, invece, cercano nella storia economica leggi matematiche che i loro amici politici utilizzano per governarci.
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