Il Pontefice ha avuto parole dure nei confronti dell’usura. «Anatema», hanno titolato i giornali. Anche questa volta però in molti non hanno capito a cosa si riferisse il Santo Padre e quale sia la reale novità di queste affermazioni. Per la cronaca ricordiamo che la Chiesa ha sempre avuto una posizione di radicale condanna verso il prestito a interesse, mai modificata e probabilmente molto più forte di quella che si potrebbe pensare. Per il Magistero della Chiesa cattolica infatti, fin dall’epoca degli Apostoli, deve ritenersi tecnicamente usura (quindi peccato mortale) tutto ciò che «eccede» la restituzione del capitale ricevuto in prestito, fosse anche un solo centesimo.
Il fondamento di questa disciplina sta in un passo del Vangelo, «mutuum date nihil inde sperantes» (Luc. 6, 35), la cui interpretazione non ammette vie d’uscita per le attività di prestito del denaro lucrose. Per noi usura significa un tasso di prestito del denaro mostruosamente elevato; per la legge italiana vuol dire un interesse superiore a circa 2 volte il tasso corrente per i mutui fondiari; ma per la Chiesa da sempre e mai senza alcuna rettifica, ogni profitto conseguente all’attività finanziaria è di per sé moralmente illecito.
Da questa dottrina, sulla quale esiste una produzione letteraria infinita, anche di facile ma documentata lettura (ricordo tra gli altri almeno due bellissimi libri tra loro differenti, di Massimo Fini e di Jacques Le Goff ) se ne deduce facilmente che la Chiesa ha sempre considerato il lavoro umano come il fattore principale dei processi economici. Ne sia la prova che tutto il castello teorico dell’usura si regge sul principio che il denaro in sé non può essere considerato un fattore di produzione, ma solo un semplice mezzo di scambio. Il denaro si guadagna con il sudore della fronte, producendo beni, non con lo spostamento di altro denaro.
Al contrario, su analoghe posizioni antiusurarie, in maniera esplicita e con modalità molto più vincolanti per i suoi fedeli è rimasto il mondo islamico, condizionando indirettamente e in profondità lo sviluppo delle attività finanziarie e di quelle economiche. Il rallentato sviluppo economico di quei paesi è certamente in parte dovuto al fatto che essi hanno rifiutato di adottare un sistema bancario come quello occidentale, per sua natura usurario, che invece la Chiesa cattolica ha tollerato, almeno dal XVIII secolo in poi, nei fatti pur continuando a condannarlo nella teoria.
A parte il fatto che il declino economico dell’Italia iniziò certamente a partire dal XVI secolo con la diffusione dell’idea che si potesse diventare ricchi non con le imprese e il lavoro ma attraverso operazioni finanziarie – come è stato ampiamente dimostrato in un vecchio ma attualissimo saggio di Gino Barbieri, uno dei maestri della storiografia economica italiana, recentemente pubblicato dall’editore Olschki di Firenze – il che dimostrerebbe che le attività finanziarie non sempre sono state sinonimo di aumento del benessere generale. È tuttavia evidente che almeno negli ultimi tre quattro secoli, su questo tema, la Chiesa cattolica ha tollerato di vivere nella profonda ambiguità tra teoria e prassi e che questa «incertezza» prima o poi dovrà essere risolta, in un senso o nell’altro, dichiarando o rifiutando la legittimità morale delle attività finanziarie.
L’economia etica non è acqua fresca che scorre senza lasciare segni. In definitiva non si tratta solo di precisare una volta per tutte come si ponga la Chiesa nei confronti di certi aspetti tipici del mondo moderno, ma si tratta di pronunciarsi autorevolmente sulla possibilità di essere contemporaneamente cristiani e svolgere attività che equiparano il profitto da lavoro con quello derivante da attività, appunto, usurarie. Le parole, anche forti,- contro l’usura non aggiungono nulla a quanto già sapevamo, se sul piano dei fatti il comportamento della Chiesa cattolica resta quello degli ultimi secoli. E forse è venuta l’ora di un pronunciamento chiaro, magari meno radicale nei principi, ma poi più coerente nei fatti conseguenti.
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