A Rignano Garganico, pochi chilometri da Foggia, in una una zona isolata sorge un ghetto che è diventato un villaggio. Con i suoi ristoranti, i suoi bar e persino una radio autogestita dove la gente racconta la propria vita, i propri bisogni, le proprie aspirazioni. I lavoratori stagionali sono arruolati da caporali africani che hanno potere assoluto. Gli arrivi da tutta Italia ma più della metà degli abitanti ci risiede stabilmente. Ecco le loro testimonianze
Siamo nel Ghetto. Il Ghetto di Rignano Garganico, pochi chilometri da Foggia, una terra di nessuno abitata dall'esercito degli irregolari che lavora per l'industria del pomodoro. Travi marce e vecchi infissi inchiodati tra loro tengono in piedi le abitazioni: pareti di cartone e pavimento di terra, all'interno vecchi materassi buttati al suolo e qualche coperta logora. Non arriva elettricità né acqua; non c'è un sistema fognario, non esistono servizi. Per lavarsi bisogna riempire le taniche e scaldare l'acqua nelle pentole. Quando i furgoni fanno ritorno al villaggio la fiamma già arde nei fusti di metallo e l'odore delle spezie e della carne alla brace si diffonde nell'aria come un richiamo.
In estate il Ghetto si riempie. Da tutta Italia i migranti in cerca di lavoro accorrono nel Tavoliere delle Puglie e la baraccopoli arriva ad ospitare oltre 800 persone. Aprono ristoranti e bar di fortuna, piccole botteghe in cui è possibile acquistare oggetti di prima necessità a prezzi esorbitanti e officine meccaniche per riparare i veicoli che servono a condurre gli operai ai campi. Un paio di volte a settimana arrivano anche venditori ambulanti, per lo più romeni, con il loro carico di indumenti da lavoro, materassi e materiali di recupero utili per costruire nuove baracche. Rashid, di origine maliana, vive insieme a Bubakar, Amadì, Talib e altre venti persone, vengono tutti dalla stessa regione del continente africano. Il Ghetto è diviso per aree di provenienza: Costa d'Avorio, Burkina Faso, Guinea Conakry, Senegal, Nigeria, Mali e Benin. Sono pochi quelli che hanno appena messo piede in Italia. I braccianti africani che lavorano in Puglia vivono nel nostro Paese da anni. Al Nord. Hanno lavorato a Milano, a Torino, a Brescia, nelle fabbriche e nei cantieri. Poi la crisi gli ha portato via il lavoro e si sono incamminati verso il Sud.
"Il sistema è controllato dai capi neri", racconta Omar, 32 anni, ivoriano di nascita. "Africani che sono qui già da tempo, conoscono i proprietari dei campi. Sono loro a reclutare la squadra. È con loro che devi parlare se vuoi lavorare". Alle prime luci dell'alba, i braccianti attendono il loro arrivo di fronte alle baracche: "i capi neri sono d'accordo con i capi bianchi" spiega Dramane, da sei anni a Milano, originario della Nigeria, "una cassa di pomodoro da 500 chili vale cinque euro, un euro e cinquanta è per i capi neri, il resto è nostro. Per riempirne una ci vuole un'ora. Dieci casse sono trentacinque euro, dieci ore di lavoro. Ma non ti restano tutti in tasca: per andare e tornare dai campi il capo nero vuole cinque euro e alla fine della giornata te ne torni al Ghetto con poco più di venti euro. I capi neri guadagnano dieci volte tanto". Dramane è rassegnato. Saer invece guarda dritto: "I capi neri parlano la nostra lingua, il lavoro lo dobbiamo a loro. Gli italiani ti sfruttano, ti fanno lavorare e non ti pagano. Meglio avere una persona affidabile, uno che è qui da anni, conosce la gente, sa dove andare e con chi parlare, è più sicuro". Kito cammina a testa bassa, poi di scatto si gira: "Non avrei mai pensato che un bianco mi facesse lavorare per poi rubarmi i soldi. Volevo chiamare la polizia ma non avevo i documenti". Senegalese, quarant'anni, il volto segnato dalla fatica, lo sguardo incerto ma le idee chiare: "La colpa non è dei capi neri, è degli italiani. Sono gli italiani che si servono dei capi neri per reclutare i braccianti, sono gli italiani che sfruttano il sistema a proprio vantaggio speculando sul nostro lavoro. Sono gli italiani che acquistano i pomodori senza chiedersi da dove vengono". Due colpi di clacson annunciano l'arrivo dell'autobotte del Comune che si fa strada tra i rifiuti e le baracche. Le cisterne dell'acqua potabile sono vuote ormai da un paio di giorni e gli abitanti del Ghetto, con le bottiglie in mano, si precipitano in strada all'arrivo del mezzo. Un uomo scende dall'autocarro e collega i tubi alle cisterne: "Sete eh?" si rivolge a Kito, che tace. In fila, uno dopo l'altro, una tanica dopo l'altra. Sull'autobotte si legge chiaro la scritta "Comune di San Severo". Tutti sanno.
Al lato della strada due uomini armeggiano intorno ad un piccolo gruppo elettrogeno, il motore fatica a partire, ma i due non mollano. Al terzo tentativo l'apparecchio smette di tossire e le luci si accendono. Dalle baracche in fondo alla strada si diffonde una musica disordinata e le strade del Ghetto iniziano ad animarsi, è pronta la cena. Kito mette le mani in tasca: "Ancora cinque euro". Il posto letto non si paga ma ogni bracciante deve consumare almeno un pasto al giorno nel luogo in cui viene ospitato. "Qui vivi e qui sei costretto a comprare" spiega Kito, "schede prepagate, detersivi, shampoo, lamette e carta igienica". È il dazio. Persino l'elettricità per ricaricare il cellulare ha un costo: 50 centesimi. "Chiunque vorrebbe andarsene da qui" dice Bubakar, risoluto, "ma non ci è concesso. I capi neri vivono con noi, nel Ghetto, e se ci allontaniamo veniamo tagliati fuori". Saer ribatte: "Io da qui non me ne voglio andare, qui mi sento al sicuro con i miei fratelli, è casa. Casa mia".
Il piatto è sul tavolo: capra arrostita, riso e verdure. Ibrahim l'ha fatta a pezzi con un machete arrugginito solo qualche ora prima, su un foglio di legno improvvisato in mezzo a una montagna di rifiuti. A servirlo è Mariam, 25 anni, senegalese. È arrivata al Ghetto con la zia tre anni fa e oggi ha dimenticato la strada del ritorno. "Quando abbiamo messo piede qui per la prima volta ci siamo chieste: "dove ci laveremo? Dove faremo la doccia?". Venivamo da Brescia, lì le cose funzionano". Sembrava impossibile per loro adattarsi al deserto del Tavoliere delle Puglie, sembrava. Bubakar e gli altri affamati divorano il pasto mentre ai bordi della strada compaiono le prime donne. Tacchi alti, abiti succinti e il volto truccato: il Ghetto ha anche le sue prostitute. Col calare del buio arrivano le prime macchine, sono italiani, vivono nella zona, le prostitute sono per loro. I braccianti non potrebbero permettersele.
"Novantasette punto zero. Siamo in diretta da radio Ghetto". Da un vecchio altoparlante irrompe la voce di Runako, la voce del Ghetto. Stasera con lui ci sono Bashir e Mamadù. Parlano, scherzano e fanno polemica: "Ho visto gente che si è fatta male nei campi e non è stata soccorsa dal padrone" denuncia Bashir, "Non possono portarci in ospedale, farebbero troppe domande" aggiunge Mamadù, "i contratti sono falsi e i contributi li versano a nome di altri". Runako annuncia il prossimo pezzo: "Questo è Quitte le pouvoir di Tiken Jah Fakoly, ascoltate e meditate fratelli. Insieme possiamo cambiare le cose". Un vecchio mixer e un'antenna improvvisata: le storie dei braccianti del Ghetto corrono ogni notte sulle frequenze di una radio pirata tra musica e free-style. Ma il segnale non va oltre la baraccopoli e le loro parole rimangono confinate tra il sudore dei campi e i cartoni sbiaditi delle baracche. Aisha ha gli occhi lucidi, seduta su una cassetta di plastica fissa il buio che inghiotte il Ghetto: non ci sono più luci all'orizzonte. Muove la testa sussurrando una melodia: "There is a land, far far away, it's called Addis Ababa".
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