Dove si posiziona ormai si sa, al centro, ma quale centro non è chiaro ai più. E la campagna elettorale non aiuta. Mario Monti definisce oggi le posizioni di Fassina e di Vendola estremiste e "conservatrici" ma nella conferenza stampa della salita in politica ha voluto citare l'Economist del 13 ottobre, un numero che, paradosso, è più vicino alle critiche e alle proposte della sinistra che alle ricette liberiste di cui il settimanale è alfiere.
La voce più autorevole del capitalismo mondiale ritiene infatti un pericolo per lo stesso capitalismo l'enorme divario mondiale tra ricchi e poveri, ed è convinto che bisogna assolutamente porvi riparo (ne ho scritto nella rubrica del 26 ottobre). Il dossier "True Progressivism" dà meriti all'America latina, unica area dove il gap è diminuito, bastona gli Stati Uniti dove è ai massimi e suggerisce una serie di misure che un nuovo centro stile Theodore Roosevelt e Lloyd George dovrebbe adottare. Ed è qui che arrivano le sorprese: ruolo importante dello Stato, valore del welfare, non tagli ma spesa efficiente, fine dei favori ai ricchi perché servono fondi per i servizi sociali con rimprovero a Obama troppo timido con i Repubblicani, priorità assoluta ai giovani, sostegno all'istruzione con stipendi adeguati agli insegnanti senza troppa enfasi sul "merito" perché potrebbe aumentare il divario sociale data l'attuale assenza di pari opportunità. Infine non più sussidi ai grandi istituti finanziari (parere dato nel dossier anche da Luigi Zingales, da vero liberista) e soprattutto stroncare il commercio tra politici e plutocrati, una malattia diffusa. Stando alla citazione il centro evocato da Monti dovrebbe dunque agire una politica radicale. E l'Agenda infatti ne porta tracce: ipotesi patrimoniale, più efficienza nella spesa pubblica piuttosto che tagli e un certo statalismo. Poi arrivano gli ultimi regali del suo governo a banchieri, grandi imprese e al Vaticano e il "pasticcio" del suo impegno in politica in compagnia di vecchi partiti e personaggi discutibili. Una nota. Chi anima il dibattito politico-economico italiano si ostina a raccontare la giustizia sociale come un vecchiume di sinistra, rimuove l'emergenza ambientale e dimentica che esistono scuole economiche diverse e strategie contrastanti nello stesso campo capitalistico su come affrontare la Grande Crisi, protagonisti premi Nobel e economisti noti da Paul Krugman a Joseph Stiglitz a Jeffrey Sachs a Nouriel Rubini fino ai dubbi del Fondo Monetario. L'Italia resta sempre un caso a parte, dove tutto si confonde e cambia di segno. La commistione annosa tra politici, banchieri, grandi imprenditori, corporazioni, logge, cricche e mafie, privilegi diffusi e clientes, informa da tempo Parlamento e amministrazioni locali, spolpa lo Stato e blocca le energie migliori del Paese. Sciogliere quest'intreccio pernicioso è un'opera che ha i suoi tempi e non prevede dirigismi salvifici. La rinascita nazionale ha bisogno di cittadini consapevoli e partecipi. Persone competenti che vivono la politica come servizio, attive nella società civile, possono fermare il degrado e creare alternative. E possono cambiare un personale politico inadeguato cominciando dalle amministrazioni locali.
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