domenica 13 gennaio 2013

LAVORO ED EDITORIA. COME FUNZIONA L'ORGANIZZAZIONE EDITORIALE. LUCIANO DEL SETTE, Come ti controllo i padroni delle librerie, IL MANIFESTO, 5 gennaio 2013


In Italia la cultura è considerata un accessorio che lo Stato non deve sostenere, i grandi gruppi editoriali acquistano distributori che acquistano punti vendita, i libri sono entrati negli autogrill e le mozzarelle in libreria. E una rete di piccole e medie case editrici si sono coalizzate per contrastare la deriva mercatista

Il copione è più o meno sempre lo stesso. Attratti dalla recensione di un libro, o dal suggerimento di un amico, si entra in libreria per acquistarlo. Chi lo ha pubblicato appartiene alla categoria degli editori di piccola e media taglia, che da sempre fanno dell'indipendenza la loro bandiera. La scelta della libreria va a una di quelle "di catena", vale a dire appartenenti ai grandi marchi editoriali italiani. Lì, trovare il libro dovrebbe risultare più facile. Dovrebbe, appunto. Perché, ovunque si giri lo sguardo, ciò che balza subito all'occhio sono l'ennesimo ronzio di Vespa, gli intingoli alla Parodi, le sfumature di grigio e di rosso, i bei sogni da fare, le madame sbutterfly. Nei casi più fortunati il libro salta fuori da un angolo buio, nella maggioranza dei casi non se ne trova traccia. Rivolgersi al commesso porta a quattro tipi di risposte: è esaurito e non ci hanno inviato altre copie, non lo abbiamo, può ordinarlo ma ci vorrà una decina di giorni, lo compri su internet.
Ora, se tutto questo comporta per il lettore perdite di tempo e crea in lui sacrosanto disappunto, visto dalla parte degli editori indipendenti rappresenta un danno materiale e morale che, con il trascorrere degli anni, ha condotto molti di loro alla chiusura o alla vendita, e tanti altri a una situazione di grave precarietà, in cui l'assenza o la ghettizzazione nelle grandi librerie rappresenta soltanto una faccia del problema. La precarietà si esprime, infatti e non poco, anche in una crescente assimilazione del libro al concetto di "prodotto", relegandone in ultimissimo piano la valenza culturale e formativa; nell'assenza di circolazione e permeabilità di un titolo all'interno di realtà pubbliche quali i centri studi, le biblioteche, le scuole, le università; nella latitanza delle istituzioni a percorrere un cammino che, ben lontano dall'assistenzialismo, prenda invece la strada di un progetto a largo respiro e a lungo termine; nella progressiva e inarrestabile estinzione delle librerie di quartiere, dove il cliente è ancora qualcuno che merita parole e consigli.

Il manifestoIl più classico degli interrogativi, Che fare?, ha portato una settantina di marchi a riunirsi sotto l'acronimo Odei, Osservatorio degli Editori Indipendenti (questo giornale ne ha già scritto nel mese di dicembre), e a produrre un Manifesto di 32 pagine, presentato a Più libri più liberi, la fiera romana della piccola e media editoria, ai primi di dicembre. È un documento articolato in quattro capitoli. Chi siamo (punto interrogativo) traccia il quadro eloquente di un paese, l'Italia, «... che considera la cultura un bene improduttivo. "Con la cultura non si mangia" ha detto un ministro della Repubblica non molto tempo fa... Chi si gingilla con la cultura è perché ha tempo da perdere, lo fa per svagarsi, magari per darsi un tono. E libere le cicale di trastullarsi nei loro vizi, ma che non vengano a chiedere soldi allo Stato. Lo Stato ha missioni più urgenti: smantellarsi, vendere appetitosi bocconcini di pubblico a chi sa profittare dell'aria che tira, spartire le briciole tra quelli che restano. Un ventennio di berlusconismo ha declinato in salsa nostrana ciò che altrove il neoliberismo predicava con formule più autorevoli. Un ventennio che non ha fatto altro che ratificare una logica della dismissione di cui gli investimenti culturali sono stati il fiore all'occhiello... Un ventennio che ha coronato la continuità di un paese che per quote del bilancio statale in investimenti culturali si colloca da sempre tra quelli del Terzo mondo. Noi piccoli editori viviamo e lavoriamo tra queste macerie».
Dove siamo (altro punto interrogativo) disegna l'identikit di un'editoria forzatamente sempre più borderline, evidenziando le cause di un vero e proprio apartheid. «In questi anni la filiera del libro, della sua distribuzione e della sua vendita, è profondamente cambiata... Abbiamo visto l'espandersi delle librerie di catena, tutte di proprietà di gruppi editoriali, e un aumento dei punti vendita riforniti dalla grande distribuzione organizzata. I libri sono entrati nei centri commerciali, nei supermercati, negli aeroporti e negli autogrill. E le librerie hanno iniziato a vendere caffè, vino, prosciutto, mozzarella, oltre ad agende, matite e palle di Natale. Siamo stati testimoni di fusioni e acquisizioni: gruppi editoriali che acquistano altri marchi editoriali, che acquistano distributori, che acquistano punti vendita. Oggi, in Italia, non esiste più un distributore di libri, con una rete nazionale, che non sia immediatamente riconducibile a un gruppo editoriale. Veniamo così a trovarci dentro un mercato nel quale la concentrazione e il controllo dell'intera filiera del libro - dal marchio editoriale al punto vendita - sono una realtà affermata e in continuo approfondimento».

Piccolo non è belloIl terzo capitolo, Dicono di noi, restituisce al mittente le accuse speciose nate intorno alla libera editoria. «La prima accusa... è che la crisi delle librerie in Italia sarebbe determinata dall'esorbitante numero di editori, e conseguente esorbitante numero di libri prodotti... È opinione comune che di questa mancata "igiene editoriale" i piccoli editori siano i maggiori responsabili: siamo troppi e facciamo troppi libri... Ma basterebbe dare un'occhiata ai famigerati dati Istat sulla produzione libraria, per accorgersi che dei circa 60.000 libri annualmente sfornati... gli editori piccoli e medi ne fanno al massimo circa il 20%. Ovvero, ben oltre i due terzi della produzione editoriale italiana a farla sono i grandi editori. Il che spesso significa gruppi editoriali... E allora risulta un po' paradossale argomentare che con qualche centinaio di editori piccolissimi, piccoli e medi in meno, il libro e il suo mercato godrebbero di miglior salute... Un altro luogo comune recita "piccolo editore non vuol dire qualità". Vero: piccolo non vuol dire necessariamente buono. Sarebbe sbagliato applicare un'equivalenza tra qualità della proposta editoriale e dimensione dell'editore. La qual cosa dovrebbe valere anche per i grandi, ovviamente. E allora perché questa specifica precauzione a misura della taglia? Non equivale forse a insinuare il dubbio che se l'editoria piccola, piccolissima, media o indipendente, vive una crisi in fondo è perché se l'è andata cercare? Come a dire, chi è causa del suo mal...».

Un bene comuneStrumenti è il capitolo conclusivo, sottotitolo Il libro bene comune. «Il libro non è solo un mercato. Nemmeno per noi che per mestiere produciamo e vendiamo libri. Come strumento di formazione, come risorsa individuale e collettiva, come forma di circolazione delle conoscenze, anche come svago e divertimento, il libro è un bene comune. I nostri libri, comunque, vogliamo che lo siano. E vogliamo immaginarne il futuro anzitutto a partire da questo... Occorre considerare il libro anzitutto una risorsa, per tutti e di tutti. Il libro inteso come ecosistema complesso, nella varietà delle sue forme e delle sue articolazioni, nelle sue diversità bibliografiche e nell'estensione dei viventi che lo abitano». I nove strumenti per un ecosistema libro non rappresentano semplice esercizio teorico. Indicano linee da seguire, propongono modelli imprenditoriali, mettono a fuoco luoghi culturali e sistemi di diffusione e conoscenza allargati; non chiedono contributi in odore di elemosina, ma sostegno che trovi riscontro e giustificazione nella qualità delle idee, nella concretezza del lavoro individuale e collettivo. Le trentadue pagine del Manifesto sono, da diverse settimane ormai, la bussola che traccia la rotta futura dell'Odei. Ciascuno dei quattro capitoli è diventato un compito per i settanta dell'editoria indipendente, riuniti intorno a vari tavoli operativi. Un compito faticoso, perché sulle spalle di ciascuno pesa la necessità del sopravvivere quotidiano.
Quando si compra un libro pubblicato da chi ha dato vita all'Odei, è bene sapere quanto segue. Se il libro costa dieci euro, all'editore rimangono in tasca quattro euro e cinque centesimi. Il resto è andato alla distribuzione e al libraio. Da questa cifra bisogna detrarre i diritti d'autore (tra il cinque e l'otto per cento), le spese di tipografia, le copie omaggio, le spese di trasporto e magazzino, le spese legate alla sede, gli oneri fiscali. Botta supplementare: se l'invenduto risulta al di sopra delle quantità stabilite nel contratto di distribuzione, scattano le penali. Con ottima pace economica per l'ennesimo ronzio di Vespa, gli intingoli alla Parodi, le sfumature di grigio e di rosso, i bei sogni da fare, le madame sbutterfly.

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