sabato 5 ottobre 2024

LA CRITICA LIBERALE ALLA MERITOCRAZIA. PELLIGRA V., La critica di Hayek alla meritocrazia come ideale di giustizia, IL SOLE 24 ORE, 8.09.2024

 L’idea di meritocrazia, diciamolo subito assieme al Nobel Amartya Sen “Ha tanti meriti ma non quello della chiarezza”. Il termine, innanzitutto, indica almeno due idee differenti: primo, il “governo dei meritevoli”, cioè un ordinamento politico e sociale nel quale coloro che spiccano per qualche qualità, virtù o competenza, sono preposti a prendere decisioni che influenzeranno la vita di tutti gli altri. Allo stesso tempo, e questa è la seconda accezione del termine, la meritocrazia indica un’idea di giustizia: i meritevoli, qualunque metrica si utilizzi per determinarne tale merito, devono essere premiati con la fama, il prestigio, la popolarità o il denaro, relativamente di più di coloro che hanno mostrato relativamente meno meriti.

L’ideale meritocratico si fonda su due premesse: la prima assume che il merito sia qualcosa di chiaro, trasparente e facile da misurare e la seconda che il mercato con la sua logica competitiva rappresenti l’ambiente più congeniale per far emergere e premiare i migliori, i più meritevoli, appunto.


Entrambe le premesse così come l’idea di meritocrazia che ne scaturisce sono caposaldi del pensiero conservatore che da oltre Atlantico è arrivato negli ultimi decenni ad influenzare il dibattito e le scelte politiche in Europa e negli ultimi anni anche in Italia, forse più come esercizio retorico che come convinta adesione ad un ideale pensato. La cosa interessante è che tra i critici più convinti dell’ideale meritocratico non solo troviamo pensatori comunitaristi come Micheal Sandel o liberali egualitaristi come John Rawls, ma anche personaggi come Friedrich von Hayek, il padre fondatore del neoliberismo contemporaneo, colui che nell’ultimo secolo è stato certamente il più agguerrito difensore del libero mercato. È vero che la retorica meritocratica ha contagiato diverse aree dello spettro politico, da destra a sinistra, ma certamente essa rappresenta una caratteristica essenziale della narrazione del conservatorismo. E per questo forse che la critica hayekiana al merito come ideale di giustizia viene spesso percepita come anomala. In realtà essa è in piena continuità con il pensiero liberale ed è coerente con la sua difesa della libertà e del mercato. Perché per Hayek l’ordine di mercato e la meritocrazia non solo non sono funzionali l’uno all’altra, ma l’applicazione del merito come criterio per l’assegnazione delle retribuzioni porterebbe, come ricorda giustamente Pierluigi Barrotta “alla distruzione dell’ordine di mercato” (I demeriti del merito. Una critica liberale alla meritocrazia, Rubettino, 1999, p. 29).

Torniamo alle due assunzioni su cui si fonda la meritocrazia: misurabilità del merito e ruolo del mercato. Riguardo la prima assunzione Hayek è perentorio. Scrive ne La Società Libera: “Nessun uomo o gruppo di uomini ha la capacità di decidere, in modo conclusivo, le potenzialità degli altri esseri umani e (…) certamente non dovremmo mai affidare ad alcuno, invariabilmente, l’esercizio di una simile facoltà”. Per ragioni epistemologiche, legate alla parzialità e alla fallibilità della nostra conoscenza, valutare il merito individuale è logicamente impossibile. Per quanto riguarda il secondo punto, poi, questo vorrebbe che le retribuzioni che il mercato riconosce ad ogni individuo siano una funzione del valore del bene o del servizio che egli produce per la collettività e che questo valore sia legato al talento e all’impegno che ogni individuo pone in ciò che fa. Chi si impegna di più ed è dotato di maggior talento, si afferma poi, è in grado di produrre un valore maggiore di chi, per qualsiasi ragione, sia meno talentuoso e meno disposto ad impegnarsi.

Gli errori dei “meritocratici”

Anche su questo punto, secondo Hayek, i “meritocratici” cadono in un errore fondamentale. Se da una parte, infatti, il merito dato dalla combinazione di talento e impegno è un attributo del singolo individuo, il valore del suo contributo alla società è un fatto sociale. Esso, in una logica di mercato, dipende infatti da innumerevoli fattori. In particolare, dall’interazione tra domanda e offerta e cioè, come ancora scrive Barrotta “dai gusti e dalle preferenze di tutte le altre persone, insieme ai loro talenti e al modo in cui essi scelgono di utilizzarli” (p. 31). Che merito c’è nell’essere oggi un influencer in una società che idolatra l’immagine o che demerito può esserci nel saper aggiustare apparecchi elettronici oggi che nessuno li fa più riparare? “Il compenso per il merito – scrive ancora Hayek - è compenso per l’obbedienza ai voleri altrui, non è compenso per i benefici che abbiamo procurato ad altri, facendo quanto ci pareva meglio”. Ciò che conta nella determinazione del valore riconosciuto dal mercato è la capacità dei diversi soggetti di soddisfare con il prodotto del loro lavoro le esigenze di altri individui, qualunque origine esse abbiamo e qualunque forma esse prendano. Merito e valore di mercato sono cose distinte e cercare di unirle porterebbe semplicemente ad un collasso del suo ordine spontaneo. Scrive ancora Hayek ne La Società Libera, “Forse contribuiremmo maggiormente alla felicità umana se, invece di tentare l’adeguamento dei compensi al merito, chiarissimo meglio quanto è incerto il rapporto tra merito e valore. Probabilmente, siamo tutti troppo pronti ad attribuire un merito personale laddove di fatto esiste soltanto un valore superiore” (p. 122).

Quali sono le implicazioni di questa critica alle assunzioni fondamentali della retorica meritocratica? La prima riguarda il fatto che affermare che legalmente e moralmente tutti dovrebbero essere trattati allo stesso modo davanti alla legge non può essere confusa con l’affermazione che “tutti gli uomini nascono uguali”. Ma se accogliamo la verità secondo cui tutti nasciamo in qualche modo diversi non possiamo non riconoscere che – come anche sosteneva don Lorenzo Milani - trattare in modo uguale i diseguali non può che generare delle ingiustizie. Per questa ragione, continua Hayek “L’uguaglianza di fronte alla legge e l’uguaglianza materiale sono non solo diverse, ma addirittura in contrasto: e di volta in volta possiamo raggiungere l’una o l’altra separatamente, ma non mai entrambe insieme”. La ragione è che una redistribuzione in base al merito andrebbe ad interferire con la logica della “catallassi” hayekiana, cioè con il meccanismo dei prezzi che in un’economia di mercato produce un esito ottimale coordinando le scelte individuali di produzione e di consumo. Ogni interferenza con tale processo non solo metterebbe a rischio l’emersione dell’ordine spontaneo ma, soprattutto, limiterebbe in maniera illegittima la libertà individuale. È per questo che la meritocrazia è, secondo il pensatore austrico, una forma di autoritarismo illiberale.

Scrive ancora Hayek “Non abbiamo niente contro l’uguaglianza come tale. Si dà però il caso che la richiesta di uguaglianza sia il movente confessato di quasi tutti coloro che vogliono imporre alla società un predeterminato modello di distribuzione. E noi ci opponiamo a tutti i tentativi di imporre deliberatamente alla società un dato modello distributivo, sia o non sia esso un ordine ugualitario (…) E in realtà molti fra quanti vogliono estendere l’uguaglianza non vogliono poi l’uguaglianza, ma una distribuzione più strettamente conforme alle convinzioni umane del merito individuale e i loro desideri sono tanto inconciliabili con la libertà quanto le richieste più esplicitamente ugualitarie – e continua - in un sistema libero, non è bene far corrispondere le ricompense materiali a quel che gli uomini riconoscono come un merito; ed è caratteristica essenziale di una società libera che la posizione di un individuo non dipenda necessariamente dalle opinioni dei suoi simili sui meriti da lui acquisiti”.

La questione fondamentale qui riguarda la logica di funzionamento del mercato che presiede ai processi di produzione e consumo nelle nostre società avanzate. Hayek lo enuncia esplicitamente quando scrive che “Il nostro problema è se è bene che gli individui godano di vantaggi in proporzione ai benefici che i loro simili traggono dalle loro attività [come avviene nel caso dell’ordine spontaneo di mercato] o se, invece, la distribuzione di questi vantaggi non debba esser basata sull’opinione che gli altri hanno del loro merito”. Il mercato premia l’apprezzamento che gli altri danno rispetto a ciò che noi produciamo e scambiamo – lavoro, idee, servizi, beni, etc. – e non, invece, il valore morale che gli altri ci possono attribuire sulla base della solo idea di merito. “Decidere del merito – continua Hayek - presuppone che possiamo giudicare se gli individui hanno sfruttato le loro possibilità come avrebbero dovuto e quanta forza di volontà o di abnegazione sia loro costato” e questo è del tutto impossibile ad un osservatore esterno e se pure fosse possibile sarebbe del tutto arbitrario e quindi ingiusto.

La logica del mercato nella prospettiva hayekiana, dunque, sovverte quella del senso comune. “I premi che una società libera offre per i risultati conseguiti – scrive ancora il filosofo - servono a dire a chi lotta per essi quale sforzo valga la pena di fare. Tuttavia, gli stessi premi andranno a chiunque produca gli stessi risultati, senza tener conto dello sforzo”. I premi sono un segnale dell’utilità sociale di un certo comportamento e non una ricompensa per un supposto merito morale. È questo, secondo Hayek, l’errore fatale che inficia la retorica della meritocrazia. Perché “la superiore civiltà o istruzione di un individuo o di un gruppo rappresenta certamente un valore importante e costituisce un attivo per la comunità a cui l’individuo o il gruppo appartiene; ma per lo più non costituisce un grande merito. La popolarità e la stima non dipendono dal merito più di quanto ne dipenda il successo finanziario” (p. 122).

Alla luce di questa critica è facile capire come uno degli equivoci più pervicaci del rapporto tra merito e mercato riguarda proprio il significato che, come società, dovremmo attribuire al successo e alle remunerazioni economiche. Il merito può, infatti, avere a che fare con la natura intrinseca dell’azione. Le azioni possono, cioè, essere giudicate in base alla loro correttezza, appropriatezza e valore, non in base ai risultati, e possono essere premiate rispetto alla loro natura intrinseca, indipendentemente dal risultato che producono. L’etica deontologica separa la giusta condotta dalla bontà delle conseguenze generate. In quest’ottica riteniamo essere meritorio, per esempio, dire la verità, comportarsi onestamente, mantenere la parola data. In una seconda prospettiva, invece, la ricompensa al merito è necessaria per promuovere comportamenti che generano benessere sociale, perché un sistema di ricompensa delle attività che generano buone conseguenze tende a produrre una società migliore. In questa prospettiva, le azioni sono meritorie in modo derivato, a seconda del beneficio che apportano, e più in particolare del beneficio che può essere ottenuto premiandole. Questa prospettiva ci interroga su cosa si debba intendere per “conseguenze meritevoli” o “società migliore”. Politiche di genere inclusive sono meritorie o no? Politiche sociali di sostegno al reddito sono meritorie o no? È più meritorio destinare risorse al sostegno scolastico di uno studente con disabilità o a favorire la ricerca sulle armi avanzate? È preferibile investire nella tutela del paesaggio di aree incontaminate o combattere il cambiamento climatico attraverso l’installazione di migliaia di pale eoliche e impianti fotovoltaici?

Sono domande che evidenziano la natura contingente e socialmente determinata della metrica del merito. “Una società in cui l’individuo fosse messo nella posizione corrispondente alle idee umane del merito morale sarebbe pertanto esattamente l’opposto di una società libera – scrive Hayek - Sarebbe una società in cui le persone verrebbero ricompensate per i doveri compiuti invece che per il successo, in cui ogni mossa di tutti gli individui sarebbe guidata da quanto altri pensano che essi dovrebbero fare e in cui l’individuo verrebbe così alleggerito della responsabilità e del rischio di prendere una decisione. Tuttavia, se nessuno ha la conoscenza sufficiente a guidare tutta l’attività umana, nemmeno esiste alcun essere umano che possa remunerare tutti gli sforzi in base al merito”.

La questione diventa ancora più seria, poi, quando dal premio al merito si passa alla sanzione per il demerito. Quando di qualcuno che ce l’ha fatta si dice che se l’è meritato e con la stessa logica si pensa di qualcuno che non ce l’ha fatto che non si è impegnato abbastanza. Questa “simmetria della valutazione” può diventare problematica e preoccupante quando informa le politiche pubbliche, il servizio sanitario o l’istruzione, per esempio, oppure lo stesso assetto istituzionale. Si pensi a quanto la retorica meritocratica è stata utilizzata per giustificare il progetto di autonomia differenziata, con la distinzione tra regioni meritevoli e immeritevoli. Scrive al riguardo il premio Pulitzer Nicholas Kristof che coloro che non riconoscono il ruolo che la fortuna ha avuto nel guadagnargli i privilegi sono, spesso, gli stessi che dimenticano gli svantaggi che hanno penalizzato gli altri. “Il risultato – continua Kristof - è una meschinità o, nella migliore delle ipotesi, una mancanza di empatia verso coloro che faticano a sopravvivere, che si traduce nell’opposizione ai programmi di sanità pubblica, ai sussidi di disoccupazione o all’aumento del salario minimo per stare al passo con inflazione. Alcuni pensano che il successo dipenda dalle “scelte” e dalla “responsabilità personale”. In parte è vero. Ma è anche vero che se i figli dei ricchi fanno scelte sbagliate, semplicemente, non subiscono le stesse conseguenze dei figli dei poveri”.

Concludiamo con una citazione dall’Enquiry di David Hume che Hayek pone in esergo al capitolo sulla giustizia distributiva di Legge, Legislazione e Libertà. E’ il grande scozzese a ricordarci che “così grande è l’incertezza del merito, sia per la sua naturale oscurità, sia per la presunzione di ciascun individuo, che nessuna precisa regola di condotta potrebbe mai derivarne; e la totale dissoluzione della società ne sarebbe l’immediata conseguenza”.

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