giovedì 13 giugno 2024

TEORIE ECONOMICHE E ANALISI DEL CAPITALISMO. LANCHESTER J., Marx non aveva tutti i torti, London Review of Books-Internazionale, 1.06.2012

 Questo articolo è stato pubblicato il 1 giugno 2012 sul numero 951 di Internazionale.

Se vogliamo provare a immaginare che idea si sarebbe fatto Karl Marx del mondo attuale, prima di tutto dobbiamo tenere presente che non era un empirista: non pensava che si potesse arrivare alla verità raccattando pezzi di esperienza, i “punti dati” come li chiamano i matematici, mettendoli poi insieme per comporre un quadro della realtà. La maggior parte di noi pensa di agire quasi sempre così e proprio questo segna una distanza fondamentale tra Marx e il senso comune: un concetto che non gli piaceva affatto perché lo considerava come uno dei modi di cui si serve un particolare ordine politico e di classe per trasformare la sua costruzione della realtà in una serie di idee apparentemente neutre che poi vengono presentate come l’ordine naturale delle cose.


Poiché fonda la conoscenza sull’ordine esistente, l’empirismo è intrinsecamente portato ad accettare come dati di fatto cose che dimostrano solo l’esistenza implicita di pregiudizi e di pressioni ideologiche. Per Marx l’empirismo tenderà sempre a confermare lo status quo. Soprattutto, non gli sarebbe piaciuta la tendenza moderna di discutere a partire dai “fatti”, come se fossero pezzi neutrali di realtà, liberi dall’influenza della storia, dell’interpretazione, del pregiudizio ideologico e delle circostanze in cui si sono prodotti.

Io, però, sono un empirista. Non perché pensi che Marx avesse torto sull’effetto deformante delle implicite pressioni ideologiche, ma perché non credo che esista una prospettiva libera da quelle pressioni. Di conseguenza abbiamo il dovere di fare del nostro meglio con quello che riusciamo a vedere, e soprattutto di non eludere i dati scomodi o contraddittori. Ma questa è una differenza profonda tra Marx e il mio modo di parlare di Marx, che Marx avrebbe giudicato privo di fondamento da un punto di vista filosofico e politico.

Prendiamo questi passaggi dal Manifesto del Partito comunista che Marx scrisse con Engels nel 1848, dopo essere stato espulso sia dalla Francia sia dalla Germania per i suoi scritti politici:

Il capitalismo ha sottomesso la campagna alla città. Ha creato metropoli enormi. Ha agglomerato la popolazione, ha centralizzato i mezzi di produzione e ha concentrato la proprietà nelle mani di pochi.

Il capitalismo non ha lasciato tra uomo e uomo nessun altro legame che non sia il freddo interesse, il gelido contante.

Il capitalismo ha mostrato per primo ciò che l’attività umana può compiere, creando ben altre meraviglie che non le piramidi d’Egitto, gli acquedotti romani o le cattedrali gotiche; e conducendo ben altre spedizioni che non le antiche migrazioni dei popoli e le crociate.

Il capitalismo ha generato forme produttive più diversificate e poderose di quanto avessero mai fatto tutte le precedenti generazioni messe insieme.

Il capitalismo non può esistere senza rivoluzionare incessantemente gli strumenti di lavoro, vale a dire il modo di produzione, e quindi tutti i rapporti sociali. Questo continuo rivoluzionamento dei modi di produzione, questo costante sconvolgimento di tutto il sistema sociale, questa agitazione perpetua e questa permanente mancanza di sicurezza, distinguono l’epoca borghese da tutte quelle che l’hanno preceduta.

Le vecchie industrie locali sono state distrutte o stanno per esserlo. Al posto dei vecchi bisogni, che un tempo erano soddisfatti dalla produzione nazionale, nascono bisogni nuovi, che per essere soddisfatti hanno bisogno di prodotti provenienti da paesi e climi lontani.

Con il loro andamento ciclico, le crisi commerciali minacciano sempre di più l’esistenza della società capitalista nel suo insieme. Ogni crisi distrugge regolarmente non solo una massa di merci già prodotte, ma anche una gran parte delle stesse forze produttive.

Leggendo queste frasi è difficile non cogliere la straordinaria lungimiranza di Marx e la sua profonda comprensione della natura, della parabola e della direzione del capitalismo. Le intuizioni che colpiscono di più sono tre: il riconoscimento della grande capacità produttiva del capitalismo, che supera quella di qualsiasi altro sistema politico-economico; la modificazione dell’ordine sociale che l’accompagna; e l’intrinseca tendenza del capitalismo alla crisi, per cicli economici alterni di espansione e contrazione.

Devo riconoscere, però, di non aver riportato le citazioni esattamente come le aveva scritte Marx: dove io scrivo “capitalismo”, lui scriveva “borghesia”. Marx parlava di una classe e del sistema che faceva i suoi interessi, e io ho dato l’impressione che stesse parlando solo di un sistema. Marx non usa la parola “capitalismo”: il termine non compare mai in tutta la prima parte del Capitale. Trattandosi del massimo critico del capitalismo, l’omissione salta agli occhi. Marx preferiva usare termini come “economia politica” ed “economia politica borghese”, che comprendevano tutto, dai diritti di proprietà alla nostra idea contemporanea di diritti umani, fino al concetto stesso di individuo autonomo e indipendente. Io credo che non usasse la parola capitalismo perché sarebbe stato come considerarlo uno dei possibili sistemi in competizione fra loro. E Marx non la pensava così: per lui non era possibile superare il capitalismo senza un radicale rovesciamento dell’ordine sociale, politico e filosofico esistente.

E aveva ragione: non sono emerse alternative. La stessa economia, come disciplina, è diventata in pratica lo studio del capitalismo. Le due cose s’identificano. Se davvero ci fosse un’alternativa seria e duratura all’egemonia del modello capitalista – oltre a quella proposta a suo tempo dai cosiddetti socialismi reali – probabilmente sarebbe già emersa, dopo il tracollo quasi definitivo del sistema economico globale del 2008. Invece abbiamo assistito solo all’introduzione di qualche piccola modifica al sistema esistente per renderlo un po’ meno rischioso. Quello attuale è un mastodontico ibrido di capitalismo di stato: un termine con cui un tempo il Partito socialista dei lavoratori britannico amava riferirsi all’Unione Sovietica, e che poche settimane fa era sulla copertina dell’Economist per descrivere la situazione economica di gran parte del mondo. Quella di oggi è la parodia di un ordine economico, in cui le persone comuni si assumono tutti i rischi e la finanza si prende tutte le ricompense: una forma purissima di quello che una volta veniva definito “socialismo per i ricchi”. Ma socialismo per i ricchi era una definizione ironica, mentre la verità è che oggi l’economia globale funziona proprio così.

Attualmente, il sistema finanziario è una minaccia per la democrazia occidentale molto più di qualsiasi organizzazione terroristica. Il terrorismo non ha mai destabilizzato nessuna democrazia, ma se i bancomat smettessero di erogare soldi rischieremmo il crollo dei moderni stati democratici. Tuttavia i governi si comportano come se non potessero farci molto. Possono chiamarci alle armi e mandarci in guerra, ma non possono intervenire sui fondamenti dell’ordine economico. Quindi, sembra proprio che omettendo la parola “capitalismo” perché non vedeva alternative all’interno dell’ordine sociale esistente, Marx abbia dato l’ennesima riprova della sua straordinaria lungimiranza.

Marx mette in primo piano la questione dell’origine del valore, dei processi di scambio delle merci e della funzione del denaro. È una questione semplice, ma che nessuno prima di lui aveva posto con tanta chiarezza. Ed è anche il tipo di questione su cui nessuno si interroga più, a livello accademico o istituzionale, dal momento che lo status quo è dato quasi sempre per scontato. Eppure si tratta di una o forse due questioni centrali: cos’è il denaro? Da dove trae origine il suo valore?

Marx dedica centinaia di pagine a questo argomento, e ne esistono altre decine di migliaia di commento e di analisi della sua opera. Di conseguenza, la mia non può che essere una sintesi limitata e condensata del suo pensiero. Il modello di Marx funziona così: la pressione della concorrenza produce sempre un ribasso del costo del lavoro. In questo modo i lavoratori sono assunti al salario minimo e pagati sempre solo quel tanto che basta a tirare avanti, e mai di più. Il datore di lavoro, poi, vende la merce non per quello che gli è costato produrla, ma al prezzo migliore che riesce a spuntare. Un prezzo che a sua volta è soggetto alla pressione della concorrenza e che, quindi, nel corso del tempo tenderà sempre a scendere. Al contempo c’è un divario tra ciò per cui il lavoratore vende il suo lavoro e il prezzo a cui il datore di lavoro vende la sua merce. Quella differenza non è altro che il denaro accumulato dal datore di lavoro: cioè quello che Marx definisce “plusvalore”, la base del capitalismo. Nel sistema capitalista ogni valore è plusvalore creato dal lavoro. “Il prezzo è il ‘nome di denaro’ del lavoro oggettivato nella merce”, per dirla con Marx. Analizzando questo punto, Marx crea un modello che ci consente di mettere a fuoco la struttura del reale e di vedere il lavoro nascosto nelle cose che ci circondano: rende il lavoro leggibile negli oggetti e nei rapporti.

Secondo Marx, la teoria del plusvalore spiega anche la tendenza intrinseca del capitalismo alla crisi. Esposto agli effetti della concorrenza quanto il suo dipendente, il datore di lavoro è destinato a vedere scendere il prezzo delle sue merci. Normalmente, affronterà il problema utilizzando macchinari per aumentare la produttività dei dipendenti, oppure assumendo un numero inferiore di dipendenti per produrre di più. Ma nel tentativo di aumentare l’efficienza produttiva può distruggere valore, per esempio fabbricando troppe merci per un profitto insufficiente, cosa che porta a un surplus di merci concorrenti, che porta a un crollo del mercato, che porta a una massiccia distruzione di capitale, che porta all’inizio di un altro ciclo. Un aspetto elegante del pensiero di Marx è che la sua teoria del plusvalore porta direttamente ed esplicitamente alla previsione delle cicliche crisi del capitalismo, con le sue fasi di espansione e contrazione.

L’idea che il lavoro sia nascosto nelle cose, e che il loro valore derivi dal lavoro in esse “incorporato”, è sorprendentemente utile nel mondo digitale

Gli argomenti di Marx presentano alcuni evidenti problemi. Uno di questi è che oggi molte merci e materie prime sono “virtuali” (nel senso che sono digitali) e non è facile capire dove stia, in questo caso, il lavoro accumulato. Per esempio, le lezioni di David Harvey sul Capitale – il punto di partenza ideale per chi deve studiare il testo – hanno un valore immenso, ma sono disponibili gratuitamente su internet. Quindi, se le comprate in forma di libro – le informazioni vengono assimilate molto più in fretta leggendo che ascoltando – il plusvalore ce lo mettete soprattutto voi.

Questa idea che il lavoro sia nascosto nelle cose, e che il valore delle cose derivi dal lavoro in esse “incorporato”, è uno strumento sorprendentemente utile nel mondo digitale. Prendiamo Facebook. Parte del suo successo deriva dal fatto che le persone lo considerano uno spazio sicuro, per sé e per i loro figli, dove passare il tempo interagendo con altre persone. Non è ritenuto un mezzo pericoloso o ambiguo, come spesso accade con le nuove tecnologie. Ma la percezione di Facebook come luogo “igienico” – non mi viene un termine migliore – è il risultato di decine di migliaia di ore di lavoro di persone dei paesi in via di sviluppo, assunte per rimuovere le immagini e i contenuti offensivi e pagate – secondo il ragazzo del Marocco che è stato l’unico a denunciare il fatto – un dollaro l’ora. Ecco un perfetto esempio di plusvalore: immense quantità di lavoro non qualificato e malpagato che creano l’immagine igienica di un’azienda che al momento della sua quotazione in borsa sperava in una valutazione di circa cento miliardi di dollari.

Se vi mettete alla ricerca di questo meccanismo nel mondo contemporaneo lo vedrete in azione dappertutto, spesso in forma di plusvalore creato da voi, utenti o clienti. Prendiamo per esempio gli aeroporti. Il check-in online è una procedura che dovrebbe rendere più efficiente la vostra esperienza in aeroporto facendovi risparmiare tempo da spendere in altre attività, alcune economicamente vantaggiose per voi. Tuttavia, gli addetti all’imbarco dei bagagli di chi ha fatto il check-in online sono così pochi che non c’è alcun risparmio di tempo per il cliente: le compagnie aeree, infatti, sono costrette ad assumere più personale per l’assistenza al check-in normale – altrimenti gli aerei non partirebbero in orario – con il risultato che le loro file sono più rapide. In pratica trasferiscono sul cliente la loro inefficienza, ma non solo: accumulano plusvalore trasferendo su di voi il lavoro. Succede continuamente. Il modello marxista ci impegna a vedere il lavoro incorporato nelle cose e nelle transazioni che ci circondano.

Un cinese medio
L’anno scorso, il National Geographic ha pubblicato un articolo sulla “persona media”, per celebrare la nascita del bambino che ha portato a sette miliardi il numero di abitanti della Terra. L’unico aspetto incontestabile di questo prototipo umano è il fatto che è destrorso. Il fatto che sia un maschio è uno sviluppo relativamente recente. In linea generale nascono più figli maschi che femmine, in un rapporto di 103-106 a 100, perché i maschi hanno un tasso di mortalità infantile più alto e ce ne vogliono di più per bilanciare il rapporto di genere nella specie. Ma in molte parti del mondo la medicina moderna ha drasticamente ridotto la mortalità infantile, e questa differenza nei tassi di nascita si manifesta anche in ripartizioni demografiche che storicamente hanno avuto più femmine che maschi, perché la donna vive più a lungo dell’uomo.

Inoltre l’aumento della prosperità e i progressi tecnologici sembrano avere prodotto una disparità ancora maggiore nei tassi di nascita: un dato inquietante che può essere associato solo alla pratica degli aborti selettivi di figlie femmine. In diverse regioni dell’Asia, soprattutto, il rapporto dei sessi è cresciuto ben oltre i possibili livelli biologici. In Cina e India, i dati del censimento indicano che a livello nazionale il rapporto è di circa 120 maschi ogni 100 donne. Entro il 2020, la Cina avrà fra i trenta e i quaranta milioni di uomini sotto i 19 anni in più delle donne. Tanto per capirci, quaranta milioni è il totale dei maschi statunitensi in quella fascia d’età: quindi, nel giro di otto anni la Cina si ritroverà con l’equivalente dell’intera popolazione maschile di giovani americani permanentemente single. Uno degli aspetti più preoccupanti di questo dato è che la “preferenza per il figlio maschio”, come viene freddamente definita nella letteratura, aumenta con il reddito e la modernizzazione. Quindi, aumenta rapidamente. E questo comporta decine di milioni di bambine scomparse.

Tornando alla nostra “persona media”, è maschio, guadagna meno di 11.500 euro all’anno, possiede un cellulare ma non ha un conto in banca. Fin qui conferma tutte le previsioni di Marx sugli sviluppi del capitalismo: non ha un conto in banca perché il lavoratore tipo è un proletario che non ha niente da depositare; non ha un capitale; e deve vendere il suo lavoro al miglior prezzo che riesce a spuntare. Ha 28 anni, cioè l’età media della popolazione mondiale. E se immaginiamo che la persona tipo appartenga al gruppo etnico più numeroso, va da sé che è un cinese han. Quindi questo rappresentante medio del genere umano nel 2012 è un cinese han ventottenne, senza un conto in banca ma con un cellulare, che guadagna meno di 11.500 euro all’anno. Le persone che oggi rispondono a questi criteri sono nove milioni. Possiamo addirittura indovinare come si chiama: Lee, o Li, il cognome più diffuso nel mondo. Ci sono tanti Lee quanti sono gli abitanti di Francia e Gran Bretagna messi insieme.

Non credo che in tutto questo Marx avrebbe trovato qualcosa di incompatibile con il suo modello, per usare un termine che non amava. Aveva previsto lo sviluppo di un proletariato che svolge il grosso del lavoro a livello mondiale, e di una borghesia che in pratica possiede il frutto di quel lavoro. Il fatto che il proletariato sia confinato nei paesi in via di sviluppo, lontano dalla vista della borghesia occidentale, non invalida il quadro: viene anche chiamato “proletariato esterno”. Come esempio di questo processo, prendiamo l’azienda di maggiore successo nel mondo, che in questo momento è la Apple. Nell’ultimo trimestre la Apple è stata l’azienda più redditizia della storia, con i suoi 13 miliardi di dollari di profitti su 46 miliardi di vendite. I suoi prodotti in testa alle classifiche di vendita internazionali sono realizzati nelle fabbriche dell’azienda cinese Foxconn. La paga iniziale di un operaio Foxconn è di due dollari l’ora, i lavoratori vivono in dormitori di sei-otto letti per cui pagano un affitto di 16 dollari al mese. La fabbrica si trova a Chengdu, funziona 24 ore su 24, dà lavoro a 120mila persone e non è neanche lo stabilimento più grande della Foxconn: quello si trova a Shenzhen e ha 230mila operai che lavorano 12 ore al giorno, sei giorni su sette. Quando di recente è scoppiato uno scandalo sui suicidi nelle sue fabbriche, la Foxconn si è limitata a dichiarare che il tasso di suicidi tra i suoi dipendenti è più basso della media cinese, e che ogni giorno è costretta a respingere migliaia di domande di lavoro. Due fatti entrambi veri.

È questa la cosa veramente sconvolgente: le condizioni di lavoro negli stabilimenti di Foxconn sono uguali se non addirittura migliori rispetto a quelle delle altre fabbriche locali, eppure i lavoratori cinesi la ritengono comunque una vita preferibile a quella del contadino medio. E tutto questo avviene nello stato teoricamente comunista più grande e potente del mondo: un paradosso talmente incredibile che non esistono parole adeguate per descriverlo. Non credo che condizioni di lavoro del genere possano essere definite ottocentesche, ma si avvicinano molto al modello marxiano di un proletariato alienato il cui lavoro viene risucchiato e inghiottito dal profitto di altri. Molto probabilmente, quindi, il nostro ventottenne signor Lee lavora in uno di questi stabilimenti.

Nuovo proletariato
La previsione di Marx rivela i suoi punti deboli solo se la esaminiamo in dettaglio. Guardando al quadro generale, gran parte di quello che aveva previsto si è avverato. Abbiamo una borghesia benestante che è internazionale, ma nel mondo occidentale costituisce la maggioranza della popolazione; e una forza lavoro proletaria che risiede principalmente in Asia. Mettiamoci anche le crisi economiche ricorrenti, la sempre maggiore concentrazione della ricchezza tra i già ricchi e le pressioni sempre maggiori a cui la borghesia è sottoposta ovunque nel mondo. È diffusa la sensazione che non esistano più rifugi sicuri, che non si possa sfuggire al cambiamento economico e che il capitalismo si muova a una velocità maggiore di quella consentita agli esseri umani. Se fai il saldatore ma per trovare lavoro tua figlia deve laurearsi in ingegneria informatica, tu e la società in cui vivi potete anche adattarvi; ma se fai il saldatore e a metà della tua carriera professionale ti si chiede di riqualificarti come ingegnere informatico, non è così facile. Eppure cambiamenti di questa portata sono all’ordine del giorno nei mercati del lavoro moderni. È esattamente questo che intendeva Marx quando preconizzava un mondo in cui “tutto ciò che è solido si dissolve nell’aria”. Non è difficile, quindi, convincersi che le previsioni di Marx fossero giuste, in linea generale.

L’errore più ovvio nella sua visione del mondo riguarda il concetto di classe. Esiste, sparso per il mondo, qualcosa di simile al classico proletariato descritto da Marx. Solo che Marx era convinto che questo proletariato sarebbe diventato una forza organizzata e sempre più centralizzata, e che proprio per questo avrebbe costituito una minaccia per il capitalismo. Creando le condizioni per cui la forza lavoro poteva organizzarsi e compattarsi, il capitalismo preparava la propria caduta. Ma non esiste alcun conflitto di classe globalizzato: non esiste un proletariato globale organizzato, neanche alla lontana. I proletari fanno la fila per entrare alla Foxconn, non per organizzare scioperi al suo interno, e il grande pericolo che incombe sulla Cina – il luogo in cui oggi, in un certo senso, si concentra il proletariato mondiale – è la diseguaglianza prodotta dalle fratture all’interno del nuovo proletariato urbano e dalla povertà rurale che si lascia alle spalle. In Cina ci sono anche tensioni tra le zone della costa e quelle centrali, e problemi di corruzione e cattiva amministrazione che esplodono regolarmente nei cosiddetti “incidenti di massa”: manifestazioni antigovernative che in Cina sono all’ordine del giorno, ma che i grandi mezzi d’informazione occidentali sembrano ignorare. Nessuno di questi problemi, però, ha a che fare con la “classe”, e visto che la lotta di classe organizzata è un tema centrale nell’opera di Marx, ecco una delle sue previsioni che non si sono avverate.

Perché? Secondo me soprattutto per due ragioni. La prima è che Marx non ha previsto – come nessun altro ha fatto o avrebbe potuto fare – lo sviluppo di una varietà di forme di capitalismo. Di solito parliamo di capitalismo al singolare, come se fosse una realtà unica, ma ne esistono varianti e modelli diversi. Lo stato sociale moderno – quello che offre al cittadino casa, istruzione e assistenza sanitaria, dalla culla alla tomba – è uno sviluppo che sembra contraddire i presupposti dell’analisi marxiana del capitalismo. Probabilmente Marx avrebbe indagato a fondo il modello dello stato sociale, proprio perché, essendo così diverso dal capitalismo che aveva conosciuto, sembra confutare l’analisi che ne aveva fatto.

Forse sarebbe giunto alla conclusione che oggi l’intera società britannica è entrata a far parte di una borghesia globale, mentre il proletariato è dislocato in altri paesi: un argomento plausibile, anche se non facile da sostenere a fronte delle diseguaglianze che esistono e crescono anche nella nostra società. Ma il capitalismo assistenziale scandinavo è molto diverso dal capitalismo statalista cinese, che a sua volta è completamente diverso dallo sfrenato capitalismo liberista statunitense, che è diverso da quello nazionalista e fortemente socializzato francese, che non somiglia affatto allo strano ibrido che abbiamo in Gran Bretagna, dove ogni governo è totalmente votato al liberismo ma esistono ampi settori pubblici che nessuno osa toccare. Singapore è uno dei paesi più dichiaratamente liberisti del mondo, regolarmente ai primi posti negli studi sulla liberalizzazione dei mercati, eppure il governo possiede quasi tutta la terra e la stragrande maggioranza della popolazione vive in case popolari. È la capitale mondiale del libero mercato, ma anche dell’edilizia popolare. Esistono molti capitalismi diversi e non sono certo che possa funzionare un’analisi che li comprende tutti come se fossero un unico fenomeno.

Un sistema di questo tipo incide prima di tutto sulla varietà e la complessità dei nostri interessi in gioco. A febbraio tutti gli operai della Foxconn hanno avuto da un giorno all’altro un aumento di stipendio del 25 per cento. E non è stato il frutto di una protesta organizzata dei lavoratori, ma il risultato di un articolo sulle loro condizioni di lavoro apparso sul New York Times. Le pressioni etiche dell’occidente sono una delle spinte più potenti per migliorare la qualità del lavoro in fabbrica a Shenzhen. Un altro esempio, molto noto in campo medico ma poco al di fuori, riguarda il Mectizan, un farmaco sviluppato dall’azienda americana Merck per curare l’oncocercosi, o cecità fluviale. Il farmaco fu realizzato nel 1987 con un consistente investimento di denaro e poi distribuito gratis in forma di donazione perenne, salvando centinaia di migliaia di persone dalla cecità e molte di più dalla fame, grazie alla trasformazione di 25 milioni di ettari di terra non coltivabile in terreno agricolo. Per non mettere in crisi il modello marxista, potreste sempre spacciare questo episodio per una trovata pubblicitaria. Ma temo che la vostra tesi non reggerebbe, visto che quasi nessuno, nel mondo occidentale, ne ha sentito parlare.

La forza produttiva, espansionista e usurante del capitalismo è così grande che non è sostenibile su scala planetaria

Ecco una cosa che Marx non aveva previsto e che ne richiama un’altra impossibile da prevedere: la varietà degli interessi e dei ruoli che abbiamo nel capitalismo contemporaneo. Marx riteneva che le persone, o meglio le classi, fossero divise in lavoratori e proprietari dei mezzi di produzione. In qualche modo metteva in conto il fatto che ognuno di noi è “portatore” di questi ruoli, e che le loro implicazioni possono entrare in gioco in momenti diversi, con il risultato che un proletario può ritrovarsi a competere con altri proletari anche se i loro interessi di classe coincidono. Il fatto è che nel mondo moderno le nostre individualità sono più frammentate e contraddittorie. Molti operai hanno fondi pensione investiti in aziende che per trarre un profitto devono ridurre al minimo il numero dei loro dipendenti tagliando posti di lavoro.

Tra i fattori che hanno portato alla stretta creditizia c’è stata la ricerca di investimenti in grado di garantire ai fondi pensione rendimenti stabili più alti per pagare le pensioni delle future generazioni di lavoratori, per cui in molti casi ci siamo trovati nella situazione paradossale in cui c’era chi restava senza lavoro per colpa delle perdite subite nel tentativo di garantire una sicurezza futura a quegli stessi lavoratori. Molti di noi sono sia schiavi salariati, beneficiari dello stato sociale e suoi fondatori, sia pensionati di oggi e di domani che, almeno in questa veste, rappresentano i classici borghesi proprietari dei mezzi di produzione. È complicato. E le forti pressioni etiche che occasionalmente possiamo esercitare sulle grandi aziende sono un sintomo di questa complessità e molteplicità di interessi. È sorprendente che le aziende ricorrano di rado all’argomento più semplice e, in un sistema capitalistico classico, più autentico per difendersi dalle accuse che ricevono: il loro ruolo è quello di ricavare un profitto per i loro azionisti, fornire occupazione e pagare le tasse. Punto. Tutto il resto spetta al governo. Eppure non lo dicono mai, forse perché intuiscono che in qualche modo siamo tutti consapevoli del fatto che l’intreccio e, a volte, il conflitto d’interessi rendono il mondo molto più complicato di quanto vorremmo.

Per quanto complicato possa essere il modello di Marx, il mondo moderno lo è ancora di più. Il che incide pesantemente su un altro aspetto, che Marx avrebbe riconosciuto grazie a una massima di Hegel: la quantità modifica la qualità. In altre parole, un sistema teorico può giustificare l’esistenza di certi fenomeni senza modificare la tendenza generale del percorso. Però arriva un momento in cui quei fenomeni si moltiplicano al punto da non essere più elementi contraddittori isolati, ma qualcosa che mette in discussione i fondamenti stessi della teoria. Qualcosa del genere è accaduto con le correnti contrarie che agiscono dentro al capitalismo.

Prendiamo i due parametri statistici fondamentali per misurare la qualità della vita: la mortalità infantile e l’aspettativa di vita. L’aspettativa di vita in Gran Bretagna nel 1850, l’anno in cui il Manifesto del Partito comunista fu pubblicato per la prima volta in inglese, era di 43 anni: più bassa dell’attuale aspettativa di vita in Afghanistan, che a sua volta è più bassa di quella di tutti i paesi che non sono stati colpiti dall’epidemia dell’aids. L’attuale aspettativa di vita in Gran Bretagna è di oltre ottant’anni e in rapido aumento, tanto da comportare una stranezza statistica: se una donna che oggi ha ottant’anni ha il 9,2 per cento di possibilità di vivere fino a cent’anni, una ragazza di venti ne ha il 26,6 per cento. Può sembrare strano che una persona più giovane di sessant’anni abbia il triplo delle possibilità di arrivare al secolo di vita, ma è solo un segno della rapidità dei nostri progressi. La mortalità infantile, che spesso è considerata un indicatore di molte altre cose (livello di sviluppo medico e tecnologico, forza dei legami sociali, grado di accesso dei poveri all’assistenza, la misura in cui una società riconosce i bisogni degli stranieri), avrebbe certamente costituito un elemento di grande interesse per Marx. Nella Gran Bretagna vittoriana, la media era di 150 morti ogni mille bambini nati vivi. Oggi il tasso è del 4,7 per mille. Un miglioramento del 3.191 per cento. Il tasso mondiale di mortalità infantile è del 42,09 per mille, un terzo di quello inglese ai tempi di Marx. L’aids incide in misura drammatica su questi dati: il Botswana, per esempio, ha un’aspettativa di vita di 31,6 anni, ma secondo i dati Onu sale a 70,7 anni, se si esclude l’impatto dell’aids.

Fino a che punto dati come questi smentiscono la teoria di Marx? Sono dati che mascherano diseguaglianze importanti. Un esempio famoso, a Londra, è quello della Jubilee Line della metropolitana: salendo a Westminster e viaggiando in direzione est, l’aspettativa di vita maschile diminuisce di un anno a ognuna delle otto fermate che seguono. Ma lasciando da parte il quadro generale, la verità è che in linea di massima viviamo tutti più a lungo e più in salute.

Se le cose stanno così, com’è possibile che il capitalismo produca un costante e sistematico impoverimento? E com’è possibile che sia un sistema distruttivo quando chi è al suo interno vive più a lungo? Prendiamo gli obiettivi di sviluppo del millennio annunciati alla fine del secolo scorso dalle Nazioni Unite, con cui ci siamo impegnati a ridurre di due terzi la mortalità infantile e di tre quarti quella materna entro il 2015 a partire dal 1990 (anche se i termini sono stati truccati spostando indietro di dieci anni il punto di partenza), a ridurre della metà il numero delle persone che vivono in condizioni di povertà estrema, a raddoppiare la percentuale di bambini che completano almeno il ciclo di istruzione primaria. È possibile ignorare questi risultati? Se un sistema riesce a realizzare traguardi del genere, si può dire che produce solo impoverimento? Lo stesso Marx scriveva che ci sono momenti in cui il modo di produzione capitalista può trascendere se stesso, come nel caso dell’invenzione della società per azioni. Ma altre dimostrazioni di questa possibilità di autotrascendenza avrebbero messo a dura prova i suoi modelli.

Un’ultima sfida al modello di Marx e alla sua visione del futuro viene da un aspetto che lui stesso aveva profetizzato con chiarezza: la straordinaria forza produttiva del capitalismo. Marx sapeva che il capitalismo avrebbe trasformato il pianeta e inciso sulla vita di ogni essere umano. Però c’è una falla al centro della sua analisi. Per Marx i due poli fondamentali della vita economica, politica e sociale erano il lavoro e la natura. Non li vedeva come elementi statici: usava la metafora del metabolismo per descrivere il modo in cui il nostro lavoro plasma il mondo e noi, a nostra volta, siamo plasmati dal mondo che creiamo. Quindi i due poli di lavoro e natura non restano fissi. Ma quello di cui Marx non tiene conto è che le risorse della natura non sono infinite: sa che non esiste una natura che non sia plasmata dalle nostre idee, ma non condivide la moderna consapevolezza che la natura può esaurirsi.

Questo genere di riflessione viene spesso definita ironica, ma in realtà è tragica. Al cuore del problema c’è il fatto che la forza produttiva, espansionista e usurante del capitalismo è così grande che non è sostenibile su scala planetaria. Tutto il mondo vorrebbe avere lo stile di vita della borghesia dei paesi avanzati. Ma non può averlo, perché esaurirebbe le sue risorse prima di averlo garantito a tutti. Ci aspetta la più grande crisi che il capitalismo abbia mai attraversato, ed è fondata sul fatto ineludibile che la natura non è infinita.

Ecco un punto che per lo più i marxisti si sono rifiutati di affrontare, e per un’ottima ragione: il problema delle risorse nel mondo attuale, che siano cibo, acqua o energia, ha a che fare con la distribuzione ineguale e non con le scorte totali. Di tutte queste cose ce n’è più che a sufficienza per tutti. Nella tradizione marxista, scrittori e militanti tendono a sottolineare questo punto, e fanno bene: ma dobbiamo anche renderci conto che il mondo sta andando verso un consumo e una domanda di risorse sempre maggiori da parte di tutti. E tutti quanti insieme. È questo il nemico mortale del capitalismo. Per fare un esempio che riguarda una sola risorsa, il consumo medio di acqua negli Stati Uniti è ogni giorno di circa 380 litri a persona. Non c’è abbastanza acqua dolce sul pianeta da consentire a tutti di vivere così.

Quindi, la questione è se il capitalismo riuscirà a evolversi creando nuovi modelli di sviluppo, come finora è riuscito a fare, e a trovare meccanismi fondati sulla proprietà e il mercato capaci di allontanare la crisi apparentemente inevitabile che ne seguirà; o se avremo bisogno di un ordine sociale ed economico completamente diverso. L’aspetto paradossale è che quest’ordine potrebbe essere per molti versi simile a quello immaginato da Marx, anche se lui aveva in mente una strada differente per arrivarci. Quando Marx scriveva che il capitalismo conteneva in sé i semi della sua stessa distruzione, non parlava di cambiamento climatico o di guerre per le risorse. Se proviamo un senso naturale di scoraggiamento di fronte alle difficoltà che ci aspettano, consoliamoci pensando al nostro spirito di adattamento e alla nostra ingegnosità, che ci hanno portato dove siamo: così lontano, cioè, e così in fretta che ora abbiamo bisogno di rallentare, e non sappiamo bene come. “L’uomo si distingue da tutti gli altri animali per la natura illimitata e flessibile dei suoi bisogni”, scriveva Marx verso la fine del primo volume del Capitale. Bisogni illimitati che vediamo dappertutto intorno a noi e che ci hanno portato dove siamo. Ora però dobbiamo cominciare a lavorare sulla flessibilità.

(Traduzione di Diana Corsini)

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