«Siamo tornati in virtù del nostro radicamento sul territorio e perché per realizzare un prodotto di qualità dobbiamo farlo in Italia» racconta agli analisti di Eurofound Giuliano Grotto, fondatore di Fitwell, il brand da amatori di scarpe da trekking migrato nel 1999 in Romania per vendere a costi più competitivi e rientrato poi (parzialmente) nella natia a Montebelluna.
L’abbigliamento, la moda e in particolare l’extra lusso, sono l’avanguardia di un cambiamento di prospettive economiche in linea con la stagione politica corrente, una sorta di post globalizzazione in cui, a varia intensità di nazionalismo, la priorità è riportare a casa il lavoro perduto (nel triennio 2015-2017 la rilocazzazione ha creato in Europa 12.840 nuovi posti di lavoro). Una classica questione di domanda e di offerta, considerando che uno studio del 2017 di PWC-Price Waterhouse Coopers mostra come il 37% dei Millennials sia disposto a pagare fino al 5% in più per un prodotto Made in Italy (il 27% fino al 10% in più).
Chi ingrana la marcia indietro allora e, soprattutto, perché? Le ragioni sono pratiche, conferma un’analisi recente dell’Università di Udine, praticissime: l’aumento dei costi di produzione all’estero (dove l’ex proletariato asiatico o est-europeo ha cominciato a organizzarsi sindacalmente), i tempi delle consegne, la riorganizzazione globale delle aziende, la riscoperta forza del brand Made in Italy specialmente adesso che le norme sulla sicurezza Ue impongono l’indicazione dell’origine di tutte le merci. La qualità sembra insomma aver recuperato terreno, prendendosi la rivincita sullo strapotere della produzione seriale di fine del secolo scorso. E poi c’è la sostenibilità, il fair trade, il valore umano e ambientale che al netto di quanto si irrida il politicamente corretto ha fatto breccia e profondamente nella società contemporanea.
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