Questo testo è apparso per la prima volta come postfazione al libro “Le avventure della merce”, di Anselm Jappe, ed.Aracne, 2019
Le Avventure della merce, il libro che viene qui presentato modestamente dall’autore come un tentativo di «riassumere l’essenziale della critica del valore», è in realtà molto più. Circolato anche in Italia, nella sua versione francese acquistata più o meno avventurosamente in Francia dai lettori più attenti, il libro è stato effettivamente per anni (ed è ancora) l’unico riferimento per chi volesse avere un quadro completo della più radicale delle teorie critiche. Ma proprio questo “quadro completo” è in realtà la rappresentazione di qualcosa che, nella sua fisionomia integrale, non esisteva prima del libro. È un contributo originale e inedito dell’autore. Jappe ammette che, prima delle Avventure, nessun testo presentasse «la critica del valore nella sua integrità». Noi aggiungiamo che questa integrità, basata su un metodo che parte «dall’analisi più semplice […] per arrivare in seguito, andando per gradi dall’astratto al concreto, fino all’attualità e alle tematiche storiche, letterarie o antropologiche», è in buona parte il frutto di quell’«eccellente livello teorico di pensiero» che già Guy Debord (Debord, 2008) aveva riconosciuto precocemente all’autore delle Avventure.
Ma il libro non è soltanto la premessa necessaria ad ogni studio serio della critica del valore. Anselm Jappe (Jappe, 2019, p. 20), infatti, invita il lettore ad «entrare nella stanza in cui sono custoditi i segreti più importanti della vita sociale», soprattutto per mettere la critica del valore di fronte alla prova della contemporaneità e ai suoi problemi più urgenti. Il messaggio più importante del libro è forse proprio quello racchiuso nella convinzione che questi problemi, anche quello più legato alla quotidianità, non possono essere risolti senza attraversare il “deserto” (Jappe, 2019, p. 16) della teoria, in tutti i suoi aspetti, anche quelli apparentemente più aridi.
La catena serrata di ragionamenti sulla natura del valore, sulla fonte del valore, sull’origine del valore, anello per anello, potrebbe sembrare a molti di “una sottigliezza scolastica” (Jappe, 2019, p. 83), mentre ha quella robustezza concreta in grado di incatenare ogni aspetto essenziale dei nostri giorni al ceppo della sua inconfondibile provenienza sociale.
È il caso anche della crisi climatica ed energetica, forse il problema centrale dell’epoca attuale, «la cui soluzione è preliminare a qualsiasi altro intervento nel mondo» (Jappe, 2019) che, come cercheremo di dimostrare, è strettamente intrecciato al problema dell’origine del valore.
Il problema dell’origine del valore è stato generalmente concepito in due forme estreme: con un approccio “circolazionista” e con un approccio “produttivista”. Il punto di vista circolazionista — così definito in termini critici da Mavroudeas (2004) e derivato dal testo di Isaak Illich Rubin (Rubin, 1976) – sostiene che il lavoro astratto e il valore possano divenire “reali” solo attraverso lo scambio dei prodotti che li contengono contro denaro.1
Chi propone tale prospettiva ritiene di superare così il punto di vista ricardiano, distaccando l’oggettività sociale del valore dall’immediata oggettivazione generata dall’attività produttiva. Il valore viene, secondo questi autori, “salvato” dalla riduzione a puro fatto tecnico nella sfera della circolazione (Kicillof e Starosta, 2007, p. 14).
Ma già autori che, anche secondo Anselm Jappe, possono essere annoverati fra i predecessori della critica del valore, come Alfred Sohn–Rethel, ritenevano che l’origine dell’astrazione mercantile fosse da rintracciare nella “sfera dello scambio” e in quella della circolazione, e non in quella della produzione materiale. Nelle Avventure della merce Anselm Jappe sostiene invece che, nelle condizioni capitaliste, non siano «lo scambio o il mercato a determinare il valore di una merce», e che il valore, «anche se si rivela nella circolazione» (Jappe, 2019, p. 58), sia già determinato nella produzione. La produzione di ciascuna merce—scrive Jappe—presuppone il sistema del lavoro astratto; il prodotto è quindi una merce, con un valore, già prima di entrare nella circolazione. Se la sua vendita non riesce, il valore non è stato realizzato, ma «l’essere valore della merce» nasce nella produzione, «e non è una qualità che la circolazione aggiunga “a posteriori” a prodotti usciti da un semplice processo tecnico».
Nella logica circolazionista, la sola azione che rende manifesto il valore è lo scambio finale sul mercato delle merci, luogo dove avviene la metamorfosi della merce in denaro. Il punto è che per Sohn–Rethel — ma l’argomentazione di Jappe vale, a ben guardare, per tutti gli approcci “circolazionisti” — «la produzione è […] un metabolismo non sociale e sovra–storico con la natura». L’approccio meramente circolazionista porterebbe cioè a considerare la produzione e il lavoro produttore di merci come un fatto naturale, presociale, neutro, positivo e concreto contrapposto alla circolazione, allo scambio e ai rapporti di classe visti come aggiunte esterne e falsificanti. In realtà il metabolismo che avviene tra società e natura acquista, sotto il controllo del capitale, una nuova esistenza, diventando tale lavoro metabolico produttore di valore. Questa prospettiva permette di avanzare un’interpretazione molto più dinamica e radicale della crisi ambientale.
Jappe spiega inoltre come l’illusione puramente circolazionista, confortata da una miopia schiacciata sulla storia, possa essere dissolta con una lettura più attenta della logica della genesi del capitalismo:
Storicamente, il capitale si è sviluppato nella sfera della circolazione, per impadronirsi in seguito della produzione — tuttavia — benché il capitale commerciale e usuraio, dunque il capitale che agisce nella circolazione, preceda storicamente il capitale industriale, e quindi il capitale produttivo, e benché questo sia nato da quello, nel capitalismo sviluppato accade esattamente il contrario: il capitale commerciale esiste soltanto come forma derivata del capitale industriale e assorbe una parte del plusvalore creato da quest’ultimo. (Jappe, 2019, p. 68)
È necessario a questo punto segnalare che anche Marx, nella sua ricostruzione della storia dell’economia politica (Teorie sul plusvalore), aveva individuato fin dall’esergo il problema dell’«essere valore della merce», negli stessi termini, analizzandolo inizialmente dal lato del plusvalore: «Prima dei fisiocratici il plusvalore —scrive Marx— viene spiegato semplicemente con lo scambio, con la vendita della merce al di sopra del suo valore» (Marx, 1972, p. 127). La posizione prefisiocratica sul plusvalore era però così ingenua che già i più razionali fra i “ripetitori” del sistema monetario e mercantilistico, come Sir James Steuart, non la condividevano più. Vendere una merce imponendo un prezzo superiore al suo valore, infatti, equivale a generare un profitto per il venditore e una perdita equivalente per il compratore, un più e un meno che, a livello generale, si annullano.
Marx aveva poi segnalato una dimensione più profonda, riguardante non tanto la creazione del plusvalore, quanto la «concezione generale della natura del valore» (Marx, 1972, p. 129). Il termine “natura”, qui, è in grado di condensare perfettamente i due problemi, il problema della sostanza e della genesi del valore, e il problema del ruolo della natura vera e propria, dell’ambiente, nel contesto storico del capitalismo. Se Steuart «non tentava nemmeno di spiegare» (Marx, 1972, p. 124) come il profitto dipendesse dall’accrescimento del lavoro, se il mercantilismo «attribuiva esclusivamente al lavoro di estrazione dei metalli preziosi» (Marx, 1972, p. 36) la facoltà di generare valore, i fisiocratici, i «veri iniziatori dell’economia politica moderna», non ebbero a loro volta una «chiara intelligenza della natura del valore» (Marx, 1972, p. 130) e confusero, quasi commettendo un errore contrario a quello circolazionista, la natura del valore con la natura nel contesto della valorizzazione.
I fisiocratici, infatti, ancora immersi nella cornice feudale e agraria, pensavano che il valore fosse costituito di «materia, di terra, di natura e delle diverse modificazioni di questa materia», mentre il “valore”, dice Marx, «è un determinato modo sociale di esistenza dell’attività umana (lavoro)». Marx sottolinea quindi, fin da subito, che il valore è una realtà sociale, il lavoro astratto. I fisiocratici furono sviati dal fatto che nell’agricoltura — inizialmente il loro unico orizzonte teorico —, il plusvalore «si manifestasse immediatamente nell’eccedenza dei valori d’uso prodotti sui valori d’uso consumati dagli operai», e arrivarono a ridurre, di conseguenza, «il valore a valore d’uso e questo a materia in generale». Un’analisi del valore più in generale divenne necessaria soltanto dopo il generalizzarsi della manifattura, e poi dell’industria come modi di produzione prevalenti.
Già nella manifattura, l’operaio non produce più direttamente i suoi mezzi di sussistenza: il processo è ormai mediato dalla compravendita e dai «diversi atti della circolazione». Il passo teorico successivo fu quindi compiuto dagli economisti politici classici, che arrivarono finalmente a individuare nel lavoro sans phrase la sorgente del valore.
Ma anche qui, avverte Jappe, «sarebbe un grande errore» pensare che il concetto di “lavoro astratto” di Marx sia uguale a quello «che Smith e Ricardo hanno ottenuto con la loro reductio ad unum, […] il “lavoro tout court” che si ottiene in questo modo è indipendente da ogni determinazione sociale ed esiste in qualsiasi società. Si tratta di una pura questione fisiologica: il dispendio di lavoro fisico o mentale» (Jappe, 2019, p.37). Questa segnalazione dovrebbe essere sufficiente a mettere in guardia verso tutte quelle posizioni che, per allontanarsi dalla visione ricardiana erroneamente assimilata a quella di Marx, finiscono per ricadere nel circolazionismo. Il lavoro e il valore devono essere nettamente distinti sia dalle determinazioni “naturali” e “fisiologiche”, sia dalla sfera superficiale della circolazione e dello scambio: sono «una realtà sociale», ma non arbitraria, sono «un’astrazione che diventa realtà» (Jappe, 2019, p.38).
Metabolismo naturale e mediazione sociale, universale e storicamente determinato, sembrano dunque intrecciati, nel capitalismo, in un dilemma. Nella risoluzione di questo dilemma, Marx attribuisce un ruolo di rilievo proprio a quei fisiocratici di cui aveva criticato le contraddizioni. La vera genialità dei fisiocratici, il pregio che li distingue da tutti i loro successori, secondo Marx, è di non avere separato i «modi oggettivi di esistenza del capitale […] strumenti di lavoro, materie prime, ecc., dalle condizioni sociali in cui essi appaiono nella produzione capitalistica», e di avere concepito «le forme borghesi della produzione […] come forme che scaturiscono dalla necessità naturale della produzione stessa, che sono indipendenti dalla volontà, dalla politica, ecc.». Benché quindi i fisiocratici concepissero erroneamente queste forme borghesi come leggi astratte, eterne e sovra storiche, fornirono in realtà gli strumenti per sbrogliare il garbuglio costituito dall’esistenza di “leggi” socialmente determinate e, allo stesso tempo, quasi naturali, leggi espresse da una specie di seconda natura, e legate ad una particolare fase storica della società.
La seconda natura del capitalismo, è in grado di ridurre la natura vera e propria, quel «sostrato “esistente senza contributo dell’uomo”, tante volte sottolineato da Marx» (Schmidt, 1969), l’ambiente, l’energia, la materia, la terra e la stessa fisiologia umana appunto a semplici «modi oggettivi di esistenza del capitale». Una seconda natura, una totalità composta di due facce, produzione e circolazione, interdipendenti fra loro, in grado di trasformare il processo lavorativo metabolico, le materie prime e ogni altra cosa in «“mezzo” e strumento al realizzarsi […] del “processo di valorizzazione”» (Colletti, 1969, p. XV). L’approccio di chi considera la produzione un fatto “naturale” a cui si dovrebbe opporre la circolazione, mostra qui tutti i suoi limiti.
L’osservazione di Alfred Schmidt (che risale alla seconda metà degli anni Sessanta), per cui il lavoro capitalista costringe gli uomini ad un curioso strabismo è corretta: gli uomini si comportano sia come «idealisti […] in quanto sussumono gli elementi naturali sotto i loro scopi», (per quanto sarebbe stato meglio dire sotto gli scopi del “soggetto automatico”), sia come «materialisti […] perché devono confrontarsi con la dura materia da essi indipendente, e sono legati alle proprietà meccaniche, fisiche e chimiche di questa materia».
Come Anselm Jappe sostiene nel suo libro, «l’aspetto concreto delle cose», nel capitalismo, «si subordina all’astrazione e […] l’astrazione sviluppa le sue conseguenze distruttrici» (Jappe, 2019, pp.58–59). Jappe descrive il passaggio storico a questa “seconda natura”, come una rottura senza precedenti. Un passaggio brutale, «sanguinante e purulento da ogni poro» (Kurz), che segna un prima e un dopo nella storia dell’umanità. Le indagini più recenti sul cosiddetto Antropocene, (l’unità geocronologica che dovrebbe succedere all’Olocene, caratterizzata dai segnali, anche stratigrafici, lasciati dalle attività umane sulla natura), depurate dalle letture più ingenue, confermano pienamente questa interpretazione. Le date e i correlati record stratigrafici proposti per fissare l’inizio dell’Antropocene, infatti, coincidono o con l’aurora del capitalismo (1610), o con la rivoluzione industriale del XVIII secolo, o con il pieno sviluppo del capitalismo avanzato (la cosiddetta Great acceleration successiva alla seconda guerra mondiale, negli anni Cinquanta). Non sarebbe quindi strettamente necessario produrre uno studio esplicito in questa direzione, come ha fatto negli ultimi anni Jason Moore, per comprendere come i dati e le date siano del tutto interni alla storia della società produttrice di merci.
Le “conseguenze distruttrici”, indicate ormai persino dalla ricerca geochimica, si stanno oggi rivolgendo contro la stessa società produttrice di merci. Alla dinamica della crisi economica irreversibile, perfettamente spiegata e dettagliata nel libro, causata dagli aumenti della produttività e dalla conseguente espulsione del lavoro vivo, sostanza del valore, dal processo di produzione, si aggiunge oggi anche l’esaurimento e la distruzione del «sostrato indipendente dall’uomo», la natura, il supporto materiale del processo di valorizzazione. La materia concreta e finita, la biosfera, la terra e le risorse sembrano non volersi rassegnare alle esigenze di astratto e di infinito della valorizzazione. Il citato lavoro di Alfred Schmidt ci viene in soccorso per segnalare come già Marx, ancora una volta, avesse perfettamente compreso questo aspetto. La natura non è per Marx «“soltanto” una categoria sociale» e «non si può risolvere […] nei processi storici della sua appropriazione». Piuttosto, dice Schmidt, nella realtà accade quotidianamente il contrario. Il lavoro astratto trasmesso alla materia nella produzione si conserva soltanto se quella stessa materia divenuta valore d’uso, ritorna nel processo di produzione come materia prima, come mezzo di produzione, o come mezzo di riproduzione della forma lavoro, cioè ritorna ad essere un «momento del lavoro vivo», (Schmidt, 2017, p. 141). I valori d’uso incapaci di rientrare nel processo della valorizzazione, invece, ricadono nuovamente nel «ricambio organico naturale»: «La seconda natura, umanizzata, costruita sulla base della prima, si trasforma di nuovo in natura prima », ma in forma degradata, in forma di «cimitero di automobili» (Schmidt, 2017, p. 139), di discarica. La conseguenza è che “i danni socio–ecologici”, causati dalla «produzione di plusvalore crescono talmente che quest’ultima comincia a soffocare». (Kurz, p.91)
Alfred Schmidt, nella sua introduzione all’edizione tedesca del 1993 de Il concetto di natura in Marx2 (Schmidt, 2017), dimostra inoltre come già in Marx, benché in modo episodico, ci fossero persino le «bozze di una critica “ecologica” all’aspetto distruttivo insito nel moderno sviluppo industriale»(Schmidt, 2017, p.38). In una delle citazioni segnalate da Schmidt, Marx lega indissolubilmente i due processi di crisi, economica e ambientale, capaci di portare al crollo tutto il sistema basato sulla merce:
«Nell’agricoltura moderna, al pari dell’industria […] l’aumento della produttività e il maggior rendimento si acquistano a prezzo della distruzione e dell’inaridimento della forza lavoro […] ogni progresso dell’agricoltura capitalistica è un progresso […] anche nell’arte di spogliare il terreno; ogni progresso nell’arte di accrescerne la fertilità per un periodo, un progresso nella rovina delle fonti durevoli di fertilità […]. La produzione capitalistica sviluppa la tecnica e la combinazione del processo di produzione sociale solo esaurendo nello stesso tempo le due fonti da cui sgorga ogni ricchezza: la terra e il lavoratore» (Schmidt, 2017, p.44).
Il giudizio espresso da Jappe nella sua prefazione all’edizione italiana di questo libro, secondo cui «William Morris aveva talvolta visto più lontano di Marx» è quindi giusto, ma forse troppo severo.
Marx sottolinea infatti in diversi passaggi come l’agricoltura e la coltivazione possano ridurre i terreni fertili ad una steppa inospitale, e come, a lungo andare, «i successi riportati nel dominio della natura si rivelino delle vittorie di Pirro» (Schmidt, 2017, p. 46). Secondo Marx, nella produzione capitalista «il ricambio organico fra uomini e terra […] altera […] l’eterna condizione naturale di una durevole fertilità del suolo».3
Si tratterà però tuttavia non tanto di sottolineare, come fa Schmidt sulla scorta del Marx essoterico, 4 che «anche quando la produttività naturale del lavoro» cesserà «di costituire […] la fonte dell’uomo sull’uomo», la vita resterà comunque determinata dal «ricambio organico di uomo e natura»; ma di chiedersi, sulla scorta delle analisi sviluppate da Jappe nelle Avventure della merce, se, quando sarà crollato il regno del soggetto automatico basato sulla continua valorizzazione del valore, «sarà ancora possibile un qualsiasi ricambio organico» fra uomo e natura. Il sole dell’avvenire della mitica “società senza classi” potrebbe, infatti, sorgere su una steppa desolata di rovine in cemento armato. Più che una società senza classi, una natura senza uomo.
Ma torniamo ancora all’altro capo del nostro filo del discorso. L’altro grande merito dei fisiocratici, per Marx, era stato quello di avere «trasferito la ricerca sull’origine del plusvalore dalla sfera della circolazione alla sfera della produzione immediata» (Marx, 1972, p.129). Il problema della genesi del valore e della sua “natura”, ormai è chiaro, è dunque strettamente legato al problema della Natura vera e propria costretta nel letto di Procuste della valorizzazione.
Il libro di Jappe spiega egregiamente come una prospettiva circolazionista non permetta di elaborare una teoria della crisi economica all’altezza dei problemi contemporanei. Ora possiamo aggiungere che questa visione è insufficiente anche per dare conto della crisi ambientale ormai empiricamente osservabile e scientificamente provata. Bisogna concludere, con Kurz, che non è stata la circolazione ad autoproclamarsi di colpo divinità sociale a spese della produzione ma, «al contrario, è stato il carattere sempre più scientifico della produzione a trasformare la forza lavoro umana» e la natura «in una merce, generalizzando così socialmente le categorie relative alla logica del valore e facendo della circolazione di merci la forma sociale generale dei rapporti. La produzione è il contesto che comprende anche la circolazione, e determina anche lo scambio» (Kurz, 1987, p.82). L’approccio circolazionista soggiace piuttosto, come ogni critica del capitalismo che resti a metà strada, a quella “lunga assuefazione” che non ci permette più di avvertire «quanto sia folle il fatto che, per esempio, l’inquinamento atmosferico “valga meno” delle perdite che un limite alla circolazione infliggerebbe all’industria automobilistica (Jappe, 2019, p. 60). Le Avventure della merce è anche, oltre a molte altre cose, uno dei migliori antidoti a questa assuefazione.
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