Può essere interessante notare che è proprio lungo questa “duplice dimensione” del ritorno della violenza nel cuore del comando capitalistico – a) il ritorno di un esercizio del potere violento e arbitrario (non più egemonico) da parte della classe capitalista, b) il ritorno di una logica di accumulazione del capitale fondata su un tipo di violenza extraeconomica – che Harvey ci chiede di pensare il divenire condizione globale di governo della pratica neoliberista di governo in La guerra perpetua (2004) e in Breve storia del neoliberismo (2007). In questi due testi, la violenza viene posta come un sorta di “significante padrone” di una nuova congiuntura storica del capitale: il ritorno della violenza dell’accumulazione per spoliazione è visto da Harvey come l’effetto principale di un mero rovesciamento (soprattutto mediante il ricorso a soluzioni autoritarie e antidemocratiche) dei rapporti di forza tra le classi, ovvero, per riprendere le sue stesse parole, come il frutto di una “restaurazione del proprio potere della classe capitalista cominciata verso metà degli anni settanta” (dopo la crisi dei profitti originata dalle lotte operaie degli anni sessanta) operato attraverso la produzione sistematica del discorso neoliberista come pratica di governo.
Siamo qui di fronte a uno degli enunciati chiave della prospettiva di Harvey: il capitalismo non si espande più attraverso un “dominio mediante egemonia”, un’espressione gramsciana ricorrente nei testi di Harvey e che avvicina la sua prospettiva a quella di Giovanni Arrighi1, bensì anche e soprattutto, visto il divenire sempre più finanziario e improntato alla rendita del capitale, un “dominio mediante coercizione”.
1. L’accumulazione per espropriazione e il nuovo spirito del comando capitalistico
Negli ultimi anni, il concetto marxiano di “accumulazione originaria” è stato oggetto di un rinnovato dibattito (Perelman 2001; Glassman 2006; Bonefeld 2008; Mezzadra 2008; Van Der Linden 2010). Si tratta di uno degli sviluppi più stimolanti di un più ampio processo di ripensamento delle categorie analitiche indotto sia dalle trasformazioni avvenute nei modi dell’accumulazione del capitale globale sin dalla fine degli anni novanta, sia dall’emergere di nuove forme e movimenti di resistenza in tutto il mondo.
E’ innegabile che fenomeni come il progressivo divenire rendita del capitale; l’invasione americana dell’Afghanistan e dell’Iraq; l’emergere della Cina e complessivamente dei cosiddetti BRICS come motori “produttivi” dell’economia mondiale; il boom dell’agrobusiness e del capitalismo “estrattivo” in molti dei paesi dell’ex Terzo mondo e dell’Est Europa; il fenomeno di una precarietà e/o disoccupazione di massa sempre più strutturale; il progressivo indebitamento dei ceti medi occidentali e non solo; la crisi economica che dal 2007 stringe nella propria morsa buona parte dei centri nevralgici dell’attuale capitale globale, così come la provocatoria determinazione dell’amministrazione Obama e dell’UE a perseverare nelle politiche neoliberiste di aggiustamento e di austerity degli ultimi vent’anni; l’espandersi di un fronte di fronte di guerra (civile ma anche globale) che attraversa tutto il corno d’Africa, parte dell’Africa centrale (Mali, Repubblica Centroafricana), il Maghreb (con la Libia e l’Egitto in testa) fino alla Siria, l’Iran, il Medioriente con la recente recrudescenza dell’offensiva israeliana contro i palestinesi e l’Ucraina; e infine la comparsa di nuove istanze radicali come quelle di Occupy Wall Street e Londra, degli indignados spagnoli, delle lotte anti-austerity in Grecia, dei riot “razziali” in Francia, Gran Bretagna e Svezia, dell’insurrezione di massa nel Maghreb e nel Mashreq, di Gezy Park in Turchia, delle lotte più recenti in America Latina contro i governi progressisti “post-neoliberisti” (vedi Ecuador, Bolivia, Argentina, ma soprattutto le ultime insorgenze in Brasile) abbiano posto sempre di più intellettuali e movimenti di tutto il mondo di fronte agli inevitabili limiti storici della propria cassetta degli attrezzi. E’ chiaro dunque che il ritorno del discorso dell’accumulazione originaria al centro delle pratiche teoriche non è il frutto di un mero esercizio filologico o scolastico: forse nessun altro termine del lessico marxiano riesce a interpellare in modo così efficace questo “nuovo spirito” del comando capitalistico svelato dalle diverse lotte globali degli ultimi vent’anni in tutti gli angoli del pianeta.
La produzione recente di David Harvey – La guerra perpetua (2004), L’enigma del capitale (2010), Città ribelli (2013) – rappresenta alla perfezione questa “struttura del sentire” diffusa presso una parte importante del marxismo contemporaneo, ovvero l’esigenza di ripensare alcune delle categorie chiave dell’archivio marxiano alla luce di una nuova congiuntura storica come precondizione necessaria di un più efficace agire politico da parte dei movimenti sociali. In L’enigma del capitale e, soprattutto, in Città ribelli, Harvey ha sensibilmente spostato il fuoco della sua attenzione dai Limiti del capitale (per richiamare il titolo di un’altra delle sue opere più famose), vale a dire dall’analisi del ciclo continuo di crisi di sovraccumulazione a cui è soggetto da sempre il capitalismo, al ruolo dei movimenti sociali di riappropriazione emersi negli ultimi due decenni nella produzione di un’alternativa al capitale fondata sul comune. Non è difficile intuire che Harvey debba buona parte della sua notorietà proprio all’aspetto sperimentale, radicale ed eterodosso, per così dire, della sua riflessione. Come si ricorderà, uno dei suoi ultimi passaggi per l’Italia (Ottobre 2013) generò aspettative importanti all’interno del movimento per i “beni comuni”. Inoltre, la sua nozione di “accumulazione per espropriazione” è venuta a costituirsi nello scenario teorico-politico attuale come una delle reinterpretazioni più diffuse del tradizionale concetto marxiano di “accumulazione originaria”. Per questo, crediamo che la sua proposta teorica meriti un esame attento.
2. L’inflessione di Harvey sul concetto marxiano
Che cosa intende Harvey con accumulazione per espropriazione? Diciamo subito che la traduzione italiana dell’originale inglese (“accumulation by dispossession”) appare accettabile, ma non del tutto adeguata. In effetti, accumulazione per espropriazione non ci immette nella stessa catena di significazione mobilitata da “accumulation by dispossession”. In termini strettamente linguistici, si può dire che “accumulazione per espropriazione” non trasmetta gli stessi effetti performativi di “accumulation by dispossession”. Dispossession, letteralmente “spossessamento” o “spoliazione”, è chiaramente un significante più generico e meno storicamente connotato di “espropriazione”. Ci pare quindi che i termini italiani “spossessamento” e soprattutto “spoliazione” rendano meglio il tipo di inflessione che Harvey intende imprimere alla sua espressione. Nell’accezione di Harvey, come cercherò di mostrare, l’enunciato “accumulation by dispossession” non intende portarci tanto verso l’oggetto dell’azione, ovvero l’esproprio di “qualcosa” (di qualche proprietà, fisicamente o materialmente intesa), quanto verso le modalità stesse attraverso cui si svolge l’esercizio dell’accumulazione: la “spoliazione”, ovvero un atto di mera “forza” o “violenza” reso possibile dal potere di cui dispone nuovamente la classe capitalista dominante. Questo primo significato della nozione ci dà una chiave importante per comprendere il tipo di lettura che ci propone Harvey delle dinamiche dell’attuale capitale globale: il ritorno dei processi di “accumulazione per spoliazione” al centro della riproduzione del capitale sta qui a indicare il ritorno della “violenza” (della coercizione extra-economica, ma si può anche dire di una “logica estrattiva”) nei dispositivi di sfruttamento capitalistici.
Può essere interessante notare che è proprio lungo questa “duplice dimensione” del ritorno della violenza nel cuore del comando capitalistico – a) il ritorno di un esercizio del potere violento e arbitrario (non più egemonico) da parte della classe capitalista, b) il ritorno di una logica di accumulazione del capitale fondata su un tipo di violenza extraeconomica – che Harvey ci chiede di pensare il divenire condizione globale di governo della pratica neoliberista di governo in La guerra perpetua (2004) e in Breve storia del neoliberismo (2007). In questi due testi, la violenza viene posta come un sorta di “significante padrone” di una nuova congiuntura storica del capitale: il ritorno della violenza dell’accumulazione per spoliazione è visto da Harvey come l’effetto principale di un mero rovesciamento (soprattutto mediante il ricorso a soluzioni autoritarie e antidemocratiche) dei rapporti di forza tra le classi, ovvero, per riprendere le sue stesse parole, come il frutto di una “restaurazione del proprio potere della classe capitalista cominciata verso metà degli anni settanta” (dopo la crisi dei profitti originata dalle lotte operaie degli anni sessanta) operato attraverso la produzione sistematica del discorso neoliberista come pratica di governo.
Siamo qui di fronte a uno degli enunciati chiave della prospettiva di Harvey: il capitalismo non si espande più attraverso un “dominio mediante egemonia”, un’espressione gramsciana ricorrente nei testi di Harvey e che avvicina la sua prospettiva a quella di Giovanni Arrighi1, bensì anche e soprattutto, visto il divenire sempre più finanziario e improntato alla rendita del capitale, un “dominio mediante coercizione”. Sia Arrighi nei suoi Il lungo XX secolo (1994) e Adam Smith a Pechino (2008) sia Harvey in La guerra perpetua vedono l’America di Bush come la materializzazione di un “nuovo imperialismo” governato da questa logica autoritaria ed estrattiva. Le scelte imperialiste degli USA da Reagan in poi, così come la finanziarizzazione promossa dal neoliberismo globale, vengono qui viste come “soluzioni autoritarie” a una fase di transizione del capitalismo iniziata nei primi anni settanta e segnata da una “doppia” crisi: a) la consunzione del modello fordista di accumulazione; b) il declino dell’egemonia politico-economica americana. Su temi così aspri come la fruibilità teorico-politica della stessa categoria di fordismo intesa in questo modo diciamo storicistico, o come il presunto declino dell’America il dibattito è naturalmente aperto. Qui può essere importante notare che in questo caso specifico tali discorsi vengono a saldarsi con concezioni di più lungo corso, come quelle di Braudel e Polanyi, secondo cui l’irruzione violenta del trittico stato-monopoli-finanza come strumento di governo del capitale – “l’attrezzo mostruoso della storia del mondo”, per ricordare la popolare espressione di Braudel – suona la campana a morte del modo dominante di accumulazione.
Nello sviluppo del suo particolare discorso su questo argomento Harvey non esita a paragonare il “nuovo imperialismo” di Bush – vale la pena ricordare che The New Imperialism è vero titolo del suo testo e non La guerra perpetua come scelto dalla traduzione italiana – all’imperialismo britannico di fine ‘800, nel senso che esso altro non è che un nuovo tentativo di dare una “soluzione autoritaria a una crisi di sovraccumulazione di capitale, “anche se le risposte alla crisi potevano essere altre”. In proposito, egli ricorda “l’errore” – sono le sue parole – di Chamberlain durante la guerra boera: la sua scelta mostrava l’incapacità delle élite al potere in Gran Bretagna di elaborare una scelta diversa da quella imperialista per risolvere la crisi. E’ così che Harvey definisce la guerra americana all’Iraq del 2003 come l’equivalente contemporaneo della guerra boera provocata dall’imperialismo inglese: “entrambe queste guerre – ci viene precisato – accadono in un momento in cui l’egemonia internazionale delle due potenze (GB prima, USA poi) è arrivata a un punto di non ritorno”.
Per dare ulteriore forma alla sua singolare impostazione sul ritorno della violenza al cuore del comando capitalistico Harvey ci propone una reinterpretazione dell’analisi dell’imperialismo di Hannah Arendt. Come si ricorderà, in Le origini del totalitarismo (1951), Arendt vede l’imperialismo inglese di tardo ottocento come una sorta di “svolta politico-autoritaria” rispetto a quello che possiamo chiamare il corso normale (pacificato) dello sviluppo del capitale improntato al free trade (e alla riproduzione allargata). Secondo Arendt, è con l’imperialismo coloniale di fine ottocento e con la sua rincorsa all’Africa che si ha un ritorno decisivo sullo scenario mondiale dell’accumulazione originaria, del monopolio, della rendita e della predazione come motore dell’accumulazione capitalistica. Non ha molto senso soffermarci qui sugli evidenti limiti di questa concezione arendtiana dell’imperialismo. Ci sembra più importante notare che il lavoro di Hannah Arendt è una delle principali risorse teoriche (forse la più importante) attraverso cui Harvey costruisce la sua categoria di “accumulazione per spoliazione” come fenomeno “altro” dalla “normale” accumulazione capitalistica.
Tornando più nello specifico al discorso di Harvey sul presente, si può essere naturalmente d’accordo con l’assunto centrale della sua prospettiva, il ritorno di una violenza “predatoria” o “estrattiva” al centro del dispositivo di sfruttamento capitalistico eseguito per mano del neoliberismo e della progressiva finanziarizzazione del capitale, ma non si rischia in questo modo di sottovalutare la dinamica governamentale o biopolitica dell’esercizio del potere neoliberista? In altre parole, non si rischia di avere una visione un po’ troppo riduttiva del neoliberismo, sottovalutando la costituzione del neoliberismo come “razionalità di governo”, o come “ragione governamentale”, per stare al lavoro dello stesso Foucault o a quello più recente di Dardot e Laval (2013)? Sia chiaro: sappiamo che in America Latina e non solo, il neoliberismo è stato imposto attraverso la violenza e il “terrorismo di stato”, ma basta questo a spiegare il suo costituirsi in una “struttura del sentire” dominante? Allo stesso tempo, questa contrapposizione (benché intesa da Harvey in modo spazialmente sincronico e dialettico) tra una congiuntura capitalistica organizzata attorno a una logica di “riproduzione allargata” del capitale e un’altra improntata all’accumulazione per spoliazione non è agita da una certa idealizzazione del fordismo, inteso qui come un sistema globale governato da un principio di regolazione in qualche modo riuscito o pacificato? Non si finisce qui per fare dell’eccezione fordista – di un sistema globale non tanto “regolato” quanto improntato, almeno nei suoi centri nevralgici, a un qualche tipo di compromesso tra capitale e lavoro – la regola strutturale dell’accumulazione del capitale? Infine, ancora più importante, questa contrapposizione così netta non rischia di ricadere in una visione storicistica e coloniale della storia del capitalismo, che scambia l’eccezione degli ex centri metropolitani come regola o come legge del capitale? Come cercherò di mostrare più avanti, il problema fondamentale sta qui nel fatto che nella messa a fuoco della nozione di “accumulazione per spoliazione” ci sembra che Harvey si soffermi più su quello che possiamo chiamare i “mezzi” del processo di accumulazione originaria così come ci è stato descritto dalla narrazione marxiana – lo stato in quanto strumento, la violenza come modalità, l’espropriazione come atto – che non su quello che per Marx era il suo “fine ultimo”: la separazione dei produttori dai mezzi di produzione come precondizione essenziale per la nascita e lo sviluppo dei rapporti tipicamente capitalistici.
Al momento vorrei sostenere, in termini bachtiniani, che la forza e il successo del concetto di “accumulazione per spoliazione” sta soprattutto nell’inflessione performativa di cui è portatore; si tratta di un’inflessione che rende in modo piuttosto efficace quella percezione comune di un comando capitalistico sempre meno disposto a mediare e sempre più costretto a ricorrere alla violenza degli apparati repressivi dello Stato e all’articolazione di “forme di controllo privato o indiretto” delle popolazioni (come ben ci spiegano Achille Mbembe (2001; 2010) e John e Jean Commaroff (2001; 2006; 2011) sulla nuova geografia politica del capitale in Africa) nel suo tentativo di costituire società improntate alla rendita, alla concorrenza generalizzata, all’individualismo proprietario, all’austerity e alla securitizzazione del conflitto sociale. Tuttavia, ci sembra che questa particolare suggestione della sua tonalità semantica debba essere rafforzata da un ulteriore approfondimento teorico.
3. Accumulazione per spoliazione come “altro” del capitale
Ma vediamo più dettagliatamente in che modo Harvey procede alla costruzione del concetto di “accumulazione per spoliazione”. In primo luogo, come abbiamo anticipato, in La guerra perpetua Harvey propone la sua espressione come un necessario aggiornamento di quella di “accumulazione originaria” di Marx. A suo parere, l’espressione di Marx è troppo connotata da un’impronta, per così dire, storica. Secondo Harvey, Marx “sbaglia” nel considerare “l’accumulazione fondata sulla predazione e la violenza fisica” (secondo modalità extra-economiche) come qualcosa di “originario”, ovvero di appartenente al passato o agli albori del capitalismo, “poiché i processi di accumulazione originaria sono stati una costante della geografia storica del capitale”. Dal suo punto di vista, dunque, è irragionevole definire dei processi economici tuttora in atto come “originari” o “primitivi”, ed è proprio per questo che egli propone l’idea di “accumulazione per spoliazione” al posto di “accumulazione originaria”.
C’è poi un secondo aspetto sottostante all’idea di accumulazione originaria di Marx che appare oggi ad Harvey come del tutto anacronistico. Mentre Marx – afferma Harvey – ci mostra come i processi di accumulazione originaria abbiano consentito lo sviluppo della “riproduzione allargata” del capitalismo, i processi di “accumulazione per spoliazione” contemporanei producono solo l’esclusione di importanti fette di popolazioni dal circuito di riproduzione capitalistico. In sintesi, per Harvey, l’accumulazione per spoliazione del presente, a differenza dell’accumulazione originaria del passato, non espande il dominio dei rapporti capitalistici a ogni segmento della società, anzi, finisce per estromettere dal vincolo capitalistico una parte importante della popolazione umana.
Cominciamo da quest’ultima parte dell’enunciazione. La prima cosa da dire è che vi è qui una certa convergenza con quanto sostenuto da molte analisi postcoloniali su ciò che possiamo chiamare il “capitalismo postcoloniale” contemporaneo. Diversi autori si soffermati su questo tratto “escludente” o “necropolitico”, per riprendere l’espressione di Achille Mbembe, dell’attuale comando capitalistico. Basti pensare, oltre che allo stesso Mbembe, ai lavori di Annanya Roy (2010), Ahiwa Ong (2005), Couze Venn (2005), Partha Chatterjee (2006, 2012) per citare solo alcuni. Ma forse quello che mostra più affinità con questo aspetto della prospettiva di Harvey è Ripensare lo sviluppo capitalistico (2010) di Kalyan Sanyal, un lavoro incentrato proprio sul modo in cui i nuovi processi di accumulazione originaria in atto nell’India del boom economico, diversamente che in passato, finiscono per espellere porzioni importanti delle masse subalterne indiane in aree non dominate dalla logica capitalistica.
Non è difficile essere d’accordo sul fatto che la nuova geografia del “capitale postcoloniale” (e qui il significante postcoloniale sta a indicare proprio questo) presenti sempre di più società e territori più che “duali” (come affermano Sanyal e Harvey) vorremmo dire “striate”, sfere e spazi di “inclusi” e sfere e spazi di “esclusi”, mettendo al lavoro una concezione “multiscalare” o “gerarchicamente differenziata” dell’umanità venuta alla luce con il razzismo coloniale, e che spesso sono proprio questi “territori di esclusi” a produrre forme importanti e radicali di riappropriazione di beni e diritti in nome del comune: ma in quali termini si può parlare effettivamente, come fanno esplicitamente Harvey, Sanyal e anche Chatterjee, dell’esistenza di un “fuori” o di un “altro del capitale” nelle società attuali?
Harvey prende come punto di partenza della sua argomentazione su questo punto una nota idea di Rosa Luxemburg, secondo cui il capitalismo deve sempre “creare” un suo “altro”, un suo “fuori”, per stabilizzarsi e riuscire ad assorbire l’eccedenza di plusvalore creato. Luxemburg, come Lenin, cercava così di spiegare la corsa alla conquista violenta del mondo da parte imperialismo coloniale europeo di fine XIX secolo: nella loro ottica, al di là delle loro differenze su altri punti, l’imperialismo a cavallo tra XIX e XX secolo veniva concepito come il prodotto della “soluzione capitalista” alla crisi di sovraccumulazione di capitale dell’epoca. Prendendo come spunto questa concezione “classica”, e al di là della specificità storica del discorso di Luxemburg, Harvey trae una delle conclusioni alla base del suo approccio: “il capitale necessiterà sempre di uno ‘sviluppo multilineare’ o ‘differenziale e combinato’ per potersi espandere”. Detto nei suoi stessi termini, uno degli aspetti storicamente costitutivi della riproduzione del capitale è stato uno “sviluppo geograficamente disomogeneo” indotto dalla dinamica di quello che chiama i “fix” spazio-temporali: si tratta, secondo Harvey, dell’effetto primario della soluzione capitalista alle crisi cicliche di sovraccumulazione, ovvero dell’unico modo possibile per il capitalismo di risolvere “il problema delle ricorrenti eccedenze di capitale” (2010, p. 38).
Ad un livello astratto, non è difficile trovarsi d’accordo con questo presupposto: il problema è che risulta assai difficile definire l’eterogeneità costitutiva del capitale come governata da qualcosa come la produzione o proliferazione di “altri del capitale”. Si tratta di un punto ben sviluppato, per esempio, dalla critica postcoloniale di Chakrabarty (2000) o anche dall’opera più importante di Yann Moulier Boutang (1998): quello che ci mostrano i loro lavori è che nella storia dell’espansione del capitalismo il rapporto salariale (la compra-vendita libera di forza lavoro) è stata solo una delle sue modalità di articolazione. In questo senso, è proprio l’assunto centrale alla base della specificità della nozione di “accumulazione per spoliazione” a restare un po’ ambivalente e a necessitare di un ulteriore chiarimento. Crediamo che la categoria di “incorporazione differenziale” o “sussunzione differenziale” di territori, popolazioni, soggetti, culture e saperi si riveli più utile ed efficace a livello teorico-politico di quella di “altro del capitale”.
Vi sono però altri nodi irrisolti. Altrettanto problematica resta poi l’idea di Harvey secondo cui i processi di “accumulazione originaria” del passato, a differenza di quelli di “accumulazione per spoliazione” del presente, “hanno consentito lo sviluppo della ‘riproduzione allargata’ del capitalismo”. Tenendo presenti il Foucault di Sorvegliare e punire o lavori come I ribelli dell’Atlantico (2005) di Linebaugh e Rediker, ma soprattutto vedendo il processo di affermazione ed espansione del capitale dalle colonie anziché dai centri metropolitani, l’affermazione di Harvey appare quanto meno azzardata. Rinviando a un’altra sede la discussione sul discorso specifico di Marx su questi processi, e concentrandoci invece sulla lettura che ne fa Harvey, basta ricordare l’opera di alcuni degli autori più importanti della tradizione di quello che Cedric Robinson ha denominato “Black Marxism”, come Fanon o C.L.R James o Malcolm X, per comprendere le difficoltà di una sostituzione di “originaria” con “spoliazione” sulla base di questa enunciazione.
Diciamolo in modo più semplice, alludendo alla condizione del capitale globale contemporaneo: dovremmo parlare di “accumulazione per spoliazione” anziché di “accumulazione originaria” per il semplice fatto che oggi questi processi finiscono spesso per produrre “esclusione”, cioè “altri del capitale”, mentre in passato “immettevano” i soggetti espropriati nel circuito capitalistico della “riproduzione allargata”? Dovremmo aggiungere che anche qui Harvey rischia di non discostarsi troppo da una posizione enunciante storicistica e coloniale piuttosto diffusa all’interno di un certo “marxismo bianco”, poiché egli sembra assumere in modo aproblematico la “positività” di quella narrazione eurocentrica e lineare sulla transizione alla modernità e al capitalismo attraverso cui l’Europa si è posta come il Significante padrone dello sviluppo e del progresso storico, come Soggetto Universale di una filosofia (coloniale) della Storia. Come sappiamo, si tratta di un tipo di immaginazione storica, comune alle ideologie borghesi liberali e a un certo tipo di marxismo occidentali, che ha posto una particolare autorappresentazione della storia dell’Europa come Significante di un movimento storico improntato alla modernizzazione e al progresso, ovvero di un processo governato nella sua “norma” dalla tendenza alla “riproduzione allargata” del capitale, per dirla nel linguaggio del marxismo alla Harvey, e quindi da una spinta comunque intrinsecamente emancipatoria. Si pensi a questa sua enunciazione in La guerra perpetua, ma che trova spazio anche nel più recente Città ribelli: “i processi di accumulazione originaria sono stati sempre comunque positivi, dolorosi ma necessari in società altrimenti stagnanti. Esprimevano violenza di classe, ma liberavano i subalterni dai rapporti feudali di dipendenza, aprivano le forze produttive allo sviluppo tecnologico e scientifico, liberavano le culture dalla superstizione e dall’ignoranza” (p. 176).
Lasciando da parte l’intenso dibattito su questo argomento all’interno del marxismo, ci sembra che la chiave per comprendere nello specifico questa concezione di Harvey stia più in Schumpeter che in Marx: in L’enigma del capitaleegli definisce i processi di accumulazione originaria come uno dei fenomeni tipici di “distruzione creativa”. Da qui anche la sua idea secondo cui le crisi ricorrenti del capitalismo non siano altro che “razionalizzazioni irrazionali” (2009, p. 126) degli squilibri costitutivi dello sviluppo capitalistico. Sappiamo però che per una vasta parte dell’umanità – fuori, ma anche dentro l’Europa – l’incontro/scontro con il modo di produzione capitalistico non significò affatto proletarizzazione, emancipazione o liberazione, bensì terrore, schiavitù, segregazione, morte, fisica e sociale. Non vi è dubbio che l’opera di Harvey si sia mostrata da sempre attenta e sensibile a questa pulsione “necropolitica” della modernità capitalistica occidentale. Tuttavia, sarebbe necessario porre un importante interrogativo: come dobbiamo intendere questo “lato” genocida, violento, predatorio, escludente dello sviluppo capitalistico? Come parte della “norma” del suo sviluppo o come una sua “deviazione” o “corruzione” indotta dalla politica, ovvero da logiche – quali il razzismo, la volontà di potere delle élite dominanti, la logica territoriale degli stati-nazione moderni – concepite come estranee a quella puramente “capitalista” del capitale?
A complicare il quadro, vi è una sua ulteriore enunciazione piuttosto problematica in L’enigma del capitale: “Il razzismo e l’oppressione delle donne e dei bambini furono determinanti nell’ascesa del capitalismo. Ma il capitalismo, per come è attualmente costituito, può in principio sopravvivere senza queste forme di discriminazione e oppressione (…) La tiepida accettazione del multiculturalismo e dei diritti delle donne nel mondo aziendale, in modo particolare negli USA, ci dà una misura della capacità del capitalismo di accogliere queste dimensioni del cambiamento sociale, ribadendo al contempo la rilevanza delle divisioni di classe quale principale dimensione dell’azione politica” (p, 259, corsivo mio). Sarebbe fin troppo semplice ricordare i recenti fatti di Ferguson e la storica questione nera negli Stati Uniti, le lotte dei migranti in Europa, o la persistente resistenza delle comunità indigene al modello dell’attuale capitalismo razziale estrattivista dell’America latina, per mostrare in che modo razza e razzismo siano venuti a configurarsi sin dalla conquista dell’America, sin dalla nascita stessa della modernità, come un dispositivo di sfruttamento globale e “costitutivo”, e non semplicemente “locale”, “esterno” o “residuale”, del comando capitalistico. Tuttavia, ci sembra importante cercare di riaprire il dibattito su quello che Anibal Quijano (2003) ha chiamato la “colonialità del potere capitalistico globale” non tanto per ribadire la sua dimensione “strutturale”, quanto per lavorare in modo più efficace e meno “autoreferenziale” alla costruzione politica di un “movimento globale di movimenti anticapitalisti incentrati sull’appropriazione del comune”, per riprendere la stessa espressione di Harvey.
4. Accumulazione per spoliazione senza espropriazione?
Riprendiamo ora la prima parte dell’enunciazione di Harvey in favore della sostituzione di “originaria” con “spoliazione” per qualificare “accumulazione”. Si può essere d’accordo con l’idea secondo cui l’aggettivo “originaria” risulta oramai poco efficace, a livello politico, per definire processi che sono stati una costante dell’espansione del capitale e che sono perennemente in atto. Tuttavia, prima di trarre conclusioni affrettate, dobbiamo chiederci: quali sono gli aspetti dei processi di “accumulazione originaria” che secondo Harvey sono stati una costante dell’espansione del capitale e che sono tornati al centro del comando capitalistico dal neoliberismo in poi? Come abbiamo anticipato, Harvey è molto chiaro su questo punto: la violenza, fisica ed economica, l’arbitrio, la predazione, la rendita, ovvero, ancora una volta, un qualcosa che egli ritiene “altro” dalla logica “produttiva” della “riproduzione allargata” del capitale. E’ in virtù di questo presupposto che “spoliazione” viene a rivelarsi per Harvey come un significante più efficace di “originaria”, non solo per nominare la logica “estrattiva” e “violenta” costante della riproduzione del capitale, ma soprattutto per indicare la ricostituzione di tale modalità come logica primaria dell’attuale comando capitalistico. Esempi contemporanei di “accumulazione per spoliazione” sono per Harvey le nuove “recinzioni” di “beni comuni” come l’acqua, l’elettricità, il gas, l’istruzione, la salute, l’edilizia popolare e la rete portate avanti dalle privatizzazioni, dai diritti di proprietà intellettuale e dai brevetti; la finanza e la sua progressiva intromissione nei bisogni della vita quotidiana (derivati, subprime, estensione generalizzata del sistema del credito/debito, privatizzazione dei fondi pensione, ecc.); la speculazione immobiliare e la conseguente gentifricazione di specifiche aree urbane (un processo che finisce spesso con l’espulsione di poveri e subalterni da questi territori), nonché la mercificazione delle forme culturali e della creatività intellettuale che da esse emergono; lo sviluppismo “estrattivista” in corso in alcune regioni dell’ex terzo mondo e dell’Europa dell’Est, legato allo sfruttamento da parte di corporation transnazionali di diverse risorse naturali (petrolio, gas, minerali, semi particolari come la soja) e al boom delle commodities nel mercato dell’agrobusiness.
Per quanto efficace nella descrizione del processo di divenire rendita del capitale, di questo nuovo movimento di “enclosures”, l’espressione “accumulazione per spoliazione”, come anticipato, sembra enfatizzare più i “mezzi” dell’accumulazione originaria che non quello che per Marx era il suo fine essenziale. E’ l’atto di separazione/espropriazione dei mezzi di produzione, di riduzione (o di assoggettamento) del lavoro vivo in forza lavoro, ciò di cui deve assicurarsi ogni giorno il capitale, ed è qui che risiede la sua violenza costante e costitutiva. Se, come sostiene Harvey, i processi di accumulazione originaria non sono qualcosa che appartiene unicamente al passato del capitale è proprio perché il capitale deve ripetere questa “separazione originaria” ogni giorno e attraverso ogni mezzo necessario. Questa violenza – l’addomesticamento o imbrigliamento della forza lavoro – è stato da sempre il motore stesso della sua espansione e riproduzione: tanto dentro come fuori il mondo della “riproduzione allargata”. Si tratta di una dimensione del discorso marxiano lasciata piuttosto in ombra dalla prospettiva di Harvey: e questa marginalizzazione finisce per indebolire alla base le potenzialità di “accumulazione per spoliazione” in quanto significante chiave per la comprensione delle dinamiche dell’attuale comando capitalistico.
Crediamo sia piuttosto difficile parlare della privatizzazione dell’istruzione, della rete e dei servizi pubblici; della speculazione immobiliare, della rendita finanziaria e di fenomeni come l’espulsione di gruppi e soggetti dai territori urbani legati ai fenomeni di gentrificazione, come dei “processi di “accumulazione originaria” senza inserire tale considerazione all’interno di un discorso più esplicito sul divenire “immateriale” della produzione e sul divenire della metropoli come luogo chiave della produzione biopolitica del capitalismo contemporaneo, ovvero senza un discorso sul ruolo dei saperi, dei linguaggi, della cooperazione e del comune come motori dell’attuale sistema produttivo. Harvey si tiene consapevolmente distante da questo discorso, e qualifica come “nebuloso” il concetto di moltitudine. Il problema è che senza questo ulteriore passaggio il concetto di “accumulazione per spoliazione” viene a trovarsi in una sorta di “terra di mezzo” teorica. Perché dovremo considerare la privatizzazione dell’istruzione e della rete, la finanza o gentrificazione urbana come nuovi processi di “accumulazione originaria” se non ci viene specificato che cosa questi processi separano/espropriano e per quale motivo? In che senso un capitale divenuto “rendita” è “estrattivo”? Solo perché ripete un atto violento? Ma in che cosa consiste quella violenza? Nel fatto che essa viene eseguita in modo arbitrario da un esercizio del potere divenuto più “coercitivo” e “repressivo” che egemonico? Ci sembrano punti su cui occorre ritornare.
Se abbiamo voluto mettere a fuoco alcuni problemi teorico-epistemologici intrinseci alla nozione di “accumulazione per spoliazione” è perché crediamo nelle sue potenzialità; consapevoli di una vecchia premessa althusseriana secondo cui ogni problema teorico è anche un problema politico.
Bibliografia
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- Vedi il dialogo Harvey-Arrighi “The Winding Paths of Capital”, in New left Review, 56, 2009; oppure diverse pagine de L’enigma del capitale. Resta però tra i due una differenza non di poco conto: mentre Arrighi, come è noto, vede una via di uscita dalla crisi attuale nella formazione di un consenso di Pechino attorno ai BRICS, nel suo Città ribelli Harvey affida l’uscita dalla crisi all’azione dei diversi movimenti sociali globali e alle loro lotte nella produzione del comune.
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