Si chiamano lavori “low cost”, ma sono low cost solo per i datori di lavoro. Per migliaia di persone in tutt’Italia si tratta di mestieri faticosi e pagati male, malissimo. Una top ten di occupazioni da incubo, messa assieme da La Stampa incrociando ultimi studi ufficiali, dati sui minimi di settore, interviste con sindacati e lavoratori. Sono i «settori con retribuzione media annua più bassa» censiti a novembre dall’Inps. È la «paga minima oraria di settore in Italia», secondo le medie dei vari contratti del settore elaborate su dati Istat-Fls (per esempio, operaio manifatturiero 9,47 euro l’ora, lavoratore edile 8,55). Ne è uscita la fotografia di un mondo con poche regole e ancora meno tutele.
Non esiste un salario minimo stabilito per legge, solo la contrattazione collettiva. Che però spesso viene aggirata. E anche gli stessi contratti sono una giungla: con i braccianti agricoli la paga cambia da provincia a provincia. «Almeno il 12 % dei lavoratori sono sottopagati rispetto ai minimi orari di settore», sostiene Andrea Garnero, economista dell’Ocse. E questo stando solo nell’alveo dei contratti “regolari”. Agricoltura, ristorazione, alberghiero, attività sportive e culturali sono i settori più spremuti. Ma chi sono questi lavoratori a prezzi stracciati, nuovi schiavi del cosiddetto “turbocapitalismo”? Li trovi al ristorante come lavapiatti o in casa, come fattorini. Macinano chilometri in bici o sul furgone, spesso con contratti atipici, o con contratti regolari sulla carta ma di fatto svuotati nella pratica. Sbarcare il lunario è una impresa. Sia Marco, cameriere di catering, sia Enrico, fattorino in bici, valgono meno di 7 euro l’ora. E non c’è capacità o conoscenza che tenga.
Anche chi fa un lavoro delicato come Dario, educatore in subappalto dai servizi sociali del Comune di Milano, non si muove dai mille euro al mese. Non solo perché la paga è bassa. Ma perché a volte è basso il numero di ore svolto. Oppure sono riconosciute meno ore di quelle effettivamente impiegate. O peggio, nel caso di Luca, postino privato in Veneto, bisogna tagliare metà dello stipendio per mettere la benzina necessaria a consegnare 15 mila buste al mese. «Non c’è solo il nero per pagare di meno – prosegue Garnero - Ci sono canali più sottili: basta non riconoscere mezz’ora di straordinario tutti i giorni». E poi ci sono tanti trucchi per aggirare controlli e contratti. Enrico, 30 anni, è un rider milanese di Deliveroo, il servizio a domicilio di pizza e kebab recapitato esclusivamente in bici. «Ho un contratto di collaborazione da 5 mila euro all’anno. Per tutti noi vale la stessa paga: 5,60 euro l’ora più un incentivo di 1,20 per ogni consegna. Tutto lordo. Anche la promessa di aprire la partita Iva per fare più consegne è un bluff: nei momenti di calma, la mattina o il pomeriggio, non vieni pagato». Nonostante decine di chilometri macinati, Enrico per ottobre ha incassato 450 euro. E se cade, si infortuna, si ammala o rompe la bici, sono solo problemi suoi. Salta il turno e le consegne le fa un altro. Nell’era della disintermediazione spinta ognuno fa da sé e non c’è nessun legame tra chi compra online, chi vende e chi consegna mobili o vestiti.
A rimanere intatta è solo la fatica di chi carica, scarica milioni di confezioni. In Italia l’85% delle merci viaggia ancora su gomma. Il livello uno di questa filiera di ordini-deposito-consegna è il facchino. Come G., arrivato a Roma dal Corno d’Africa, che sposta colli anche fino a 12 ore al giorno nei magazzini di un discount. Un lavoro pesante, che spacca la schiena e le gambe. Sulla carta ha un contratto regolare, la paga oraria è di circa 8,50 euro, ma nel cedolino a fine mese le ore si “asciugano” da 210 a 140. Alla fine si mette in tasca circa mille euro. «Cinque anni fa si stava meglio. Ora non ti pagano più nemmeno le ferie. E se non ti sta bene, ti dicono di cercarti altro».«Il mancato pagamento delle ore fatte e il non rispetto dei minimi contrattuali sono pratiche sempre più diffuse», commenta Alberto Violante dei SiCobas. Il passo successivo è nelle mani degli stakanovisti del volante, con carico e scarico compreso nel viaggio. Feriale o festivo non conta.
Così quelli come Luis, autista peruviano trapiantato a Brescia, si sono ingegnati. «Passo più tempo in cabina che a casa e quando tra la fine del turno e l’inizio del successivo sono troppo lontano o stanco dormo in cabina». In genere questi ritmi li tengono solo i camionisti dei Tir che però devono sottostare a periodi di break obbligatori. Invece per i cosiddetti “padroncini” quelle regole non valgono: lavorano in conto terzi e devono correre il più possibile. L’economia che rallenta li costringe ad accelerare: più consegne, più ore al volante, più pericoli. «Non esiste lo straordinario e ogni mese arrivo a 1.400 euro. Ma quanta fatica: se voglio vedere la mia fidanzata la devo portare in cabina con me». Anche per Luca l’ufficio è la strada. È un postino dei tempi moderni: inizia alle 6 del mattino, ha una pausa di 30 minuti e finisce alle 8, dal lunedì al venerdì. Il sabato fino alle tre. Fanno sessantadue ore a settimana.
Quasi il doppio del postino di Stato, mentre lui è in subappalto in Veneto per un operatore privato che distribuisce corrispondenza sotto i 20 grammi di peso grazie alla liberalizzazione. Un mercato di circa 2000 titolari di licenza dentro i quali si nascondono miriadi di società che fanno contratti “fantasiosi”, come racconta Luca: «Nella busta paga risulta che mi pagano a ore, però in realtà è cottimo: per ogni busta prendo da 5 a 8 centesimi». La differenza la fa la densità abitativa della zona assegnata. Così se incassa 1.100 euro, deve sottrarre le spese di benzina, caselli e costi della propria auto.
Dopo quasi 15mila buste infilate in 15 mila cassette non arriva a 600 euro al mese. Marco è uno studente di 22 anni che ogni tanto fa il cameriere. «Un catering “estremo” il mio: mi trovo con gli altri, partiamo in macchina e non sappiamo dove ci manderanno. Tutto il tempo del viaggio è gratis. E capita in un week-end di macinare centinaia di chilometri: da Milano a Modena la mattina, Lodi la sera e il giorno dopo sul lago di Como». Tutto per 6 euro l’ora con contratto in ritenuta d’acconto. E alla prima busta paga gli vengono trattenuti anche 20 euro per la cravatta nera obbligatoria. Per i periodi di massimo sforzo, settembre e dicembre, quando tutti vogliono sposarsi o organizzare una cena aziendale, a Marco arrivano fino a 70 “chiamate” in 30 giorni.
Un tour de force di andata-montaggio-evento-smontaggio-ritorno ripetuto a ritmi forsennati ogni 10 ore. Spesso non ha neppure il tempo di fare la barba e viene multato con una decurtazione di 10 euro. Illegale, ma accettata da tutti come un segno di nonnismo. «Dalla stanchezza mi è capitato di addormentarmi in bagno. Fuori mi aspettava il maître di sala che cronometrava la mia assenza dai tavoli». L’agricoltura resta il settore dove i lavoratori sono più torchiati. E non solo i braccianti immigrati, vittime di caporalato. Anche operaie agricole come Francesca, 50 anni, che si alza all’alba per raccogliere ciliegie o uva tutto il giorno in Puglia.
Sulla busta paga dovrebbe avere 52 euro a giornata, per 6 ore lavorative, ma di fatto ne riceve 28, se va bene 30, meno di 5 euro l’ora. Alla fine raccoglie mille euro. «Siamo tante donne in questo settore, e se ne approfittano, sanno che non abbiamo scelta». «Il minimo contrattuale per sei ore e trenta al giorno dovrebbe partire dai 40-42 lordi», commenta Giovanni Mininni, segretario nazionale Flai-Cgil. «Ma viene aggirato, non solo al Sud». Al di fuori di aziende medio-grandi, anche i piccoli imprenditori si ritrovano a tirare la cinghia, schiacciati da un mercato al ribasso. «Per alcune varietà di riso nell’ultimo anno abbiamo visto una riduzione dei prezzi del 50 per cento», commenta Emilio Cardazzi, produttore milanese con due dipendenti fissi e due stagionali. «La concorrenza di riso asiatico, che non paga dazi e può usare prodotti chimici che qui sono stati vietati, sta diventando molto pesante».
Elena invece è una addetta alle pulizie nel Lazio. Ha un contratto che molti le invidierebbero: dipendente a tempo indeterminato, settore appalti pubblici per le caserme. Ha una paga oraria di 7,58 euro: «Non così male», commenta. Eppure a casa a fine mese porta solo 300 euro. Come è possibile? Il problema è il monte ore. Solo 10 alla settimana, divise su tre giorni. «Prima ne facevo almeno 20, poi negli ultimi anni abbiamo subito un drastico taglio». L’orario di lavoro “liquido” è un problema anche per Dario, educatore in una cooperativa che si aggiudica i bandi del Comune di Milano. Passa quasi più tempo in metro e bus che negli interventi veri e propri: disagio giovanile e progetti legati al bullismo. Tutti gli spostamenti non sono retribuiti ma è facile arrivare a 50 ore a settimana (partendo da un contratto da 20) a 8 euro l’ora. Per tenersi aggiornato insegna all’università. Lo stipendio non si schioda: mille euro tondi.
«Spesso esco di casa la mattina presto, torno la sera tardi. Mangio dove capita per arrivare in tempo dagli utenti che seguo. Pur vivendo insieme, incrocio la mia ragazza solo nel week-end: spesso quando torno lei già dorme. A me fare l’educatore piace, non lo cambierei». Il salario è un’equazione al contrario: più importante il ruolo meno si incassa. Racconta Olga, badante romana: «Mi è capitato di sentirmi dire fai compagnia a mia nonna, vai e ti corichi. Sono 500 euro al mese». Peccato che il contratto preveda un minimo mensile di 966 euro a 6,70 l’ora. In questo mondo, dove la maggior parte sono donne dell’Est Europa che lasciano le famiglie per accudire anziani, si leggono anche offerte indecenti: «Cerco badante, dovrà cucinare a pranzo, fare compagnia e la ragazza dovrà essere “predisposta”. Ha 81 anni ma è molto “attivo”. Pochi perbenismi e moralismi».
Nessun commento:
Posta un commento