Lo studio, pubblicato dall'editore Franco Angeli, si intitola La famiglia flessibile. Sottotitolo: "Gli effetti transgenerazionali della flessibilità lavorativa: il caso di Milano". "Il punto è che le storie di vita dei lavoratori flessibili raccontano qualcosa che passa spesso in secondo piano nel dibattito pubblico - spiega Bonato - Professionalità altamente qualificate retribuite meno dei limiti di sopravvivenza; coppie senza accesso al credito per l'acquisto della casa; lavoratrici costrette a posticipare la maternità; uomini e donne senza un'identità lavorativa che possa dare loro dignità di fronte alla società". Da qui l'idea dello studio, che mira a dimostrare come "la flessibilità influenza la tutele della genitorialità e la differente fruizione di queste ultime ha un impatto sulla famiglia e sulla crescita del bambino".
Poco più di un quarto delle lavoratrici flessibili (o precarie) prese in esame utilizzano i permessi di allattamento. Contro il 60 per cento circa delle lavoratrici con un contratto stabile. Questo semplice fattore ha un impatto diretto sullo sviluppo del linguaggio del neonato: "La mancata fruizione del permesso da parte della figura di riferimento - si legge - aumenta del 48 per cento la probabilità che il figlio appartenga al gruppo dei bambini nei quali si rileva un rallentamento dello sviluppo linguistico".
Il campione della ricerca è stato stratificato, proporzionalmente alla cifra complessiva delle 9.900 famiglie con bambini da zero a tre anni a Milano, suddividendolo per tipologia del nido frequentato, per zona territoriale e per classe di età del bambino. Ne esce fuori quindi anche uno spaccato generale delle nuove famiglie in città: l'86 per cento ha uno o due figli, ma quasi il 40 per cento di tutte loro desidera tre o più bambini. Il 65 per cento alloggia in una casa di proprietà, ma il 70 per cento di queste è gravata da un mutuo.
Per quasi il 10 per cento delle donne l'essere diventata madre ha comportato la perdita del lavoro. È interessante, poi, come un terzo delle famiglie percepisca gli educatori precari come meno capaci di assolvere ai bisogni di cura, visti come soggetti che hanno meno tempo di instaurare una buona relazione con il bambino.
Secondo gli studi, generalmente la prima parola del bambino avviene in un'età compresa tra i 9 e i 14 mesi. Così il campione è stato diviso in due categorie: chi l'ha pronunciata prima dei 15 mesi e chi dopo. Incrociando poi il dato con la situazione lavorativa della madre. "Nel segmento del campione in cui (la madre, ndr ) è assunta con un contratto atipico la percentuale dei bambini che ha detto la prima parola dopo i 15 mesi è del 40,6 per cento. Laddove invece la madre ha un lavoro stabile, la percentuale scende al 28 per cento".
La precarietà (anzi, la flessibilità) fa sì che le neomamme prendano meno permessi e congedi e contemporaneamente lavorino di più. L'analisi statistica della ricerca, infatti, mostra che se non si fruisce dei riposi giornalieri la percentuale dei "bambini post-15 mesi" è del 41,5 per cento; se invece si resta più a casa, scende al 25, 3 per cento.
Anche Stefania Radoccia, come Bonato, è giuslavorista in una società di consulenza, Ey. Quindi ha un punto di osservazione meno critico rispetto alla cosiddetta "flessibilità". "Il Jobs Act ha introdotto alcune modifiche alla normativa previgente in tema di conciliazione tra vita professionale e vita privata che considero, però, marginali - ragiona - e non funzionali a sostenere le madri lavoratrici in
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