Il capitalismo è un disastro di proporzioni globali, un orrore economico i cui effetti più crudeli, finora dispiegati soprattutto nel Sud del mondo, cominciano a essere visibili anche al Nord. Denunciarlo non basta: se le accuse servissero a qualcosa, il regime del plusvalore sarebbe già morto da un pezzo. Gli autori di questo testo chiamano “capitalismo” questo sistema che si reinventa continuamente e che continuamente ci cattura attraverso alternative infernali del tipo: “se vi battete per l’aumento del salario, favorite la delocalizzazione e la disoccupazione”, “se non accettate gli OGM, ci sarà gente che morirà di fame”, e via dicendo. L’effetto è paralizzante.Leggi tutto
Altri popoli hanno dato un nome preciso a i sistemi che inibiscono il divenire e inducono depressione e ristagno: li chiamano stregoneria. E se non si trattasse di una metafora? Se “stregoneria” fosse il nome più preciso che possiamo dare alla cattura che il capitalismo esercita su di noi? Se, infine, l’impiego di questo vocabolo ci mettesse in una posizione migliore per proteggerci e per far presa, a nostra volta, sul sistema?
Nel cercare di rispondere a queste domande, il libro di Pignarre e Stengers non propone alcun nuovo programma né alcuna nuova teoria. Mira, semmai, a incoraggiare tutti quelli e tutte quelle che ancora non cedono alla rassegnazione e i cui successi – sempre parziali – devono essere raccontati, festeggiati e rilanciati. Perché l’emergere di un’alternativa non dipende dalle lotte difensive e dalla “postura rivoluzionaria”, ma dalla costruzione paziente e gioiosa di un diverso rapporto con gli altri e con il mondo.
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