Giornate trascorse al telefono (utilizzando il tuo cellulare privato) a procacciare clienti per conto di una società che però - se non riesci a concludere l’affare - non ti verserà neppure un euro. Infine potenziali datori di lavoro alla ricerca di personale femminile per non meglio precisate linee amiche che ti propongono collaborazioni solo a patto che tu sia “disinibita”. In poche parole: prostituzione telefonica retribuita 0,14 centesimi al minuto.
Lasciate ogni speranza, voi che entrate. Fra contratti ai limiti dell’illecito, escamotage per pagare di meno i dipendenti, lavoro nero, stipendi da fame e pressioni psicologiche il mondo dei call center continua a essere un far west delle regole.
E certo ci saranno pure aziende oneste e stipendi dignitosi, da qualche parte. Non lo dubitiamo. Ma perdersi in questa selva oscura di illegalità per chi cerca lavoro nel settore purtroppo sembra essere la norma e non l’eccezione.
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L’Espresso ha provato a verificare di persona, rispondendo a decine di annunci di società che sono alla ricerca di personale da impiegare nei call center outbound (ovvero con chiamate in uscita) e inbound(in entrata) in tutta Italia. Quasi tutti sono pubblicati sul web attraverso i più popolari portali di ricerca lavoro. Il risultato è stato avvilente.
A confermare il panorama sempre più nero è la Cgil: su 80mila lavoratori italiani impiegati nel settore, dal 2011 a oggi si sono già contati quasi 10mila licenziamenti mentre altre 12mila persone rischierebbero il posto di lavoro entro il primo semestre del 2016.
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Sotto osservazione ci sono in particolare i lavoratori del colossoAlmaviva Contact, che conta 4mila lavoratori nelle due sedi palermitane e 1.500 in quella di Roma.
DUE EURO L’ORA
Qualcuno li ha ribattezzati i “braccianti del terzo millennio”. E la definizione non si discosta di molto dalla realtà. Fa sapere Riccardo Saccone della Slc Cgil: “La retribuzione media di un operatore di call center per un part time da 20 ore settimanali è di 500/600 euro al mese. Si aggira intorno ai 700/900 euro invece lo stipendio di un impiegato che lavora 35 ore a settimana. Mentre un full time con circa 10 anni di anzianità non riesce quasi mai a superare i 1.200 euro al mese”.
Quasi tutti i rapporti lavorativi, poi, vengono stipulati al di fuori del contratto collettivo di telecomunicazione.
Per telefono alcune di queste società ci spiegano molto chiaramente che prima di iniziare a percepire un fisso mensile (che non supererebbe mai i 600 euro per quasi otto ore di lavoro al giorno) si dovrà affrontare un periodo di prova non retribuito. Il miraggio che viene fatto intravedere ai lavoratori è che potranno poi ottenere una provvigione per ogni contratto fatto sottoscrivere ai clienti.
In realtà, vista la diffidenza sempre maggiore nei confronti di chi riceve le chiamate dai call center, riuscirci diventa davvero difficile. E così l’operatore si ritrova a doversi accontentare dell’esiguo fisso mensile. E a dover subire pressioni psicologiche e minacce di licenziamento per non essere riuscito a raggiungere il goal prefissato dall’azienda. Anche perché poi, spesso, per pagare di meno si può sempre ricorrere a qualche trucco.
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Conferma Andrea Lumino della Slc Cgil Taranto, che per la sua battaglia quotidiana contro il far west dei call center si è ritrovato a ricevere intimidazioni e minacce: “Esiste un’azienda che lavora per un committente nazionale di telefonia i cui lavoratori vengono pagati 5 euro lordi all’ora solo se raggiungono l’obiettivo di produzione stabilito dall’azienda: un contratto ogni 14 ore. Se non ce la fanno, la loro paga scende a 2,5 euro l’ora”.
“TI PAGO IN VOUCHER”
Una delle proposte più diffuse, da parte delle società di call center, è quella di pagare con i voucher, i buoni usati per retribuire prestazioni lavorative occasionali. E fin qui non ci sarebbe nulla di male, se non fosse che il lavoro di cui stiamo parlando è un impiego continuativo. Con tanto di orario d’ufficio dalle 9 del mattino alle 19 di sera, sei giorni su sette.
“Ormai fanno tutti così per tutte le professioni, perché è più pratico e veloce”, ci spiega il titolare di una società alla ricerca di telefonisti. In effetti i dati ufficiali sembrano dargli ragione, come riportato anche da un’inchiesta de l’Espresso: nei primi sei mesi del 2015 sono stati attivati oltre 49 milioni di tagliandi con un aumento del 74,7% rispetto all’anno precedente. Tanto che il presidente dell’Inps Tito Boeri mesi fa aveva lanciato l’allarme: “I voucher rischiano di diventare la nuova frontiera del precariato”.
Il ritornello che ripetono con parlantina sciolta i reclutatori dei call center è infatti sempre lo stesso: “Dobbiamo vedere strada facendo se ci troviamo bene con lei, prima eventualmente di assumerla”. Peccato che questo rischi di diventare il classico gioco del bastone e della carota. Dove la carota rimane irraggiungibile.
GARA AL RIBASSO
Uno dei problemi principali più attuali e allarmanti – sottolinea la Cgil – è quello delle delocalizzazioni e degliappalti (e sub appalti) al ribasso.
Il sindacato denuncia in particolare il mancato rispetto della clausola sociale contenuta nel “ddl Appalti” approvato dal Parlamento. E cita l’esempio emblematico di Poste Italiane ed Enel, aziende controllate dallo Stato italiano che, assegnando le attività di call center a “esterni”, sceglierebbero in base al prezzo più economico, alimentando “un business di aziende incontrollate e spregiudicate”.
Secondo la Cgil, le aziende Gepin Contract e Uptime che da anni gestiscono i call center di Poste Italiane avrebbero infatti già iniziato le procedure di licenziamento per quasi 500 addetti ai call center fra Roma e Napoli. L’appalto se lo sarebbero aggiudicato altre imprese dai prezzi ancora più competitivi. Del resto, il decreto appalti lo permette: chi propone il prezzo più basso si accaparra il lavoro. Mentre la clausola sociale che impone a chi vince l’appalto di non licenziare i vecchi operatori garantendo la continuità lavorativa sarebbe del tutto ignorata.
“Se passa il messaggio che due aziende controllate dallo Stato possono assegnare attività di call center senza rispettare le clausole sociali – si chiede il sindacalista Massimo Cestaro – perché mai dovrebbero farlo quelle private?”.
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Totalmente disattesa, quindi, secondo il sindacato sarebbe anche la norma (articolo 24 bis della legge 134/2012) sulle delocalizzazioni. Moltissimi call center hanno traslocato in Paesi con costi del lavoro bassissimi e dove non esiste garanzia per il trattamento dei dati personali e sensibili.
CALL CENTER FANTASMA
E poi c’è un ulteriore aspetto difficile da monitorare: quello deicall center fantasma. Si tratta di aziende improvvisate a gestione familiare o addirittura individuale, senza indirizzi fisici ufficiali per non essere individuati in caso di denunce. Gli operatori dei call center si ritrovano a svolgere il proprio lavoro in garage e sottoscala senza database o computer. Il più delle volte ai dipendenti viene chiesto di usare i cellulari privati con la promessa di rimborsare i costi delle chiamate in uscita. Queste società durano una manciata di mesi, il tempo di svolgere il lavoro assegnato dai committenti. Sfruttano al massimo i telefonisti e quindi scompaiono nel nulla come fantasmi per poi riaprire da un’altra parte con un nuovo nome.
Di casi di questo genere, solo in Puglia, ne sono stati segnalati cinquanta solo nell’ultimo anno e mezzo. I pochi dipendenti che hanno trovato la forza di denunciare (perlopiù in forma anonima) raccontano un microcosmo di terrore fatto di minuti cronometrati anche per andare in bagno, divieto di socializzare fra colleghi, mobbing, minacce e violenza psicologica verso chi avanza il più basilare dei diritti: essere pagati per il lavoro svolto.
E’ a Taranto, in particolare, che si riscontra la presenza più preoccupante di call center fuorilegge. “E’ lì che hanno trovato impiego molte delle mogli dei lavoratori dell’Ilva, rimasti senza lavoro”, spiega ancora il sindacalista Andrea Lumino. Ed è sempre lì che si consumerebbero quotidiane ingiustizie. Come la società che lavora per una delle più grandi compagnie telefoniche italiane che avrebbe alle sue dipendenze collaboratori a progetto ai quali nega di avere una copia del proprio contratto. O come la società –pure quella al servizio di un grosso gruppo telefonico – che versa ai dipendenti un regolare stipendio ma che, dopo l’accredito, pretende che loro restituiscano all’azienda la metà del compenso. “Una tangente per continuare a lavorare”, taglia corto Lumino.
CHIAMATE “CALDE”
Ancora più impenetrabile è il mondo dei call center che invitano a svolgere l’attività “dal proprio domicilio” per servizi “inbound”, ovvero di chiamate in entrata. Offerte di questo tipo, sul web, abbondano. Il più delle volte le società precisano che al dipendente verrà passata la telefonata del cliente direttamente sul proprio telefono di casa, tramite un centralino. Le tariffe, per chi chiama, sono ovviamente con lo scatto al minuto. E quindi l’operatore del call center verrà retribuito in base alla quantità di minuti (o secondi) in cui riuscirà a trattenere al telefono chi chiama per le informazioni.
Questi annunci, che ricercano principalmente personale femminile, si rivelano però a volte “hot line” ben camuffate. Per ottenere più velocemente l’autorizzazione a operare – conferma la Polizia Postale – le società producono infatti molto spesso false dichiarazioni affermando che i servizi erogati sono “di puro carattere informativo”. Ce lo spiega chiaramente la titolare di una di queste società, che ci propone una collaborazione con una non meglio precisata “linea amica”: “Noi stiamo fornendo un servizio di informazioni, ufficialmente”. Ufficiosamente, però, si tratta di tutt’altro. “Quando chiamano gli uomini deve essere disinibita, si possono creare situazioni di intimità…devo spiegarle altro?”. Ma se l’atteggiamento è ambiguo, le regole sono ferree: la dipendente deve garantire la propria disponibilità per sette ore al giorno sei giorni su sette. La sua voce vale 0,14 centesimi al minuto. Insomma, cambia l’oggetto di vendita – se così lo vogliamo definire – ma non lo sfruttamento selvaggio e la retribuzione umiliante.
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