NEW YORK - L’auto che si guida da sola di Google è ancora nell’era della sperimentazione, ma già può fare meglio degli umani con un software capace di distinguere centinaia di oggetti simultaneamente: veicoli, pedoni sul bordo del marciapiede, l’operaio di un cantiere con una paletta che ordina lo stop. Sa anche interpretare il gesto di un ciclista che sta per svoltare.
Dalla chirurgia alla compilazione della dichiarazione dei redditi, dalla radiologia all’assistenza agli anziani e ai malati, i robot, entrati nelle catene di montaggio delle fabbriche di auto una trentina d’anni fa, stanno facendo capolino un po’ ovunque. Perfino, seppure a fatica, nelle scuole: robot che insegnano l’inglese e la calligrafia vengono già usati in scuole della Corea e del Giappone, ed è iniziato qualche timido esperimento anche negli Usa. Il robot riduce la fatica e i pericoli corsi dall’operaio in fabbrica, aumenta la produttività. Ma fa anche sparire molti posti di lavoro.
La Foxconn, l’azienda di Taiwan che produce in Cina la maggior parte degli iPhone e degli iPad della Apple, ha trovato il modo di ridurre la pressione sul suo milione di lavoratori, ponendo fine all’epidemia di suicidi di operai stressati: presto molti di loro saranno sostituiti da diecimila robot. I primi assembleranno già l’iPhone 6 che verrà messo in vendita tra pochi mesi. Poi Foxconn, che curiosamente collabora con Google per costruirsi in casa i robot coi quali realizzare i prodotti della Apple, automatizzerà tutto. Fatica azzerata. Ma azzerato anche il lavoro, in molti reparti almeno.
Da tempo la diffusione dell’intelligenza artificiale, sempre più capace di sostituire l’uomo non solo nei lavori manuali più semplici ma anche, ormai, in quelli intellettuali del ceto medio (ad esempio il software «Turbotax» col quale molti americani sostituiscono il commercialista o i radiologi rimpiazzati da macchine capaci di leggere lastre, ecografie ed esami del sangue), spinge economisti, sociologi e tecnologi a chiedersi cosa c’è dietro l’angolo: un mondo felice nel quale staremo meglio lavorando meno e pagando meno ciò che è prodotto da un robot, come credevamo fino a ieri, o un mondo sempre più diseguale di disoccupazione crescente mentre la maggior ricchezza prodotta dalle macchine va a beneficio di pochi?
La novità è che, mentre fino a qualche tempo fa la seconda tesi, quella pessimista, era sostenuta da pochi accademici come Robert Gordon, subito relegati nel ghetto dei «neoluddisti», ora un’indagine condotta dal Pew Research Center, l’istituto di ricerche più autorevole d’America, tra circa duemila esperti del settore, ha prodotto risultati diversi e sorprendenti: la metà di quelli che hanno risposto al sondaggio continua a dirsi convinta che i lavori sostituiti dai robot verranno più che compensati - com’è sempre avvenuto in due secoli di rivoluzione industriale - dalla nascita di settori dell’economia interamente nuovi. Per gli altri (48%), nell’economia digitale questo non è più vero: l’era del vapore ha prodotto le ferrovie che hanno assorbito milioni di lavoratori, quella elettrica ha illuminato le città e alimentato le fabbriche, il motore a scoppio ha dato lavoro non solo agli operai dell’auto ma ai milioni che hanno costruito strade, hanno rivoluzionato l’urbanistica delle città e creato la rete di produzione e distribuzione dei carburanti. Internet, invece, produce autostrade digitali che di lavoro diretto ne creano poco. Fanno nascere nuovi business digitali, è vero. Ma quasi sempre a scapito di servizi «fisici» meno efficienti che, a quel punto, licenziano.
Anche se il loro numero cresce a vista d’occhio, non è detto che abbiano ragione i pessimisti come Judith Donath dell’«Harvard center for internet and society» che prevede disoccupazione di massa, una distribuzione della ricchezza sempre più diseguale con l’aristocrazia digitale asserragliata nelle sue cittadelle fortificate. Può anche darsi che abbia ragione Hal Varian, il capo-economista di Google: «Chi rimpiange i tempi in cui piatti e panni si lavavano a mano? Anche stavolta, come in passato, nasceranno nuovi mestieri al posto di quelli, più faticosi, che spariscono. Tutti noi vogliamo lavorare di meno».
Più che per il risultato finale (non c’è una risposta netta) l’indagine del Pew è interessante perché esamina le varie facce di un problema fin qui poco considerato dalla politica e che, invece, è destinato ad avere in futuro un’influenza enorme in almeno tre campi: la produzione di beni e servizi con le fabbriche sempre più automatizzate e la rarefazione dei negozi sostituiti dal commercio online. Poi c’è la scuola nella quale, come dice il curatore della ricerca del Pew, Aaron Smith, «i governi preparano i ragazzi che dovranno lavorare nell’economia di Zuckerberg seguendo ancora i modelli educativi dell’era di Henry Ford», il capostipite, un secolo fa, dell’industria Usa dell’auto. In terzo luogo i governi che già oggi devono affrontare le tensioni sociali legate alla disoccupazione tecnologica.
Si tratta di cominciare a ragionare su nuovi scenari e nuove realtà possibili: ad esempio sul fatto che le donne avranno probabilmente un vantaggio perché sono più portate per quei lavori che, richiedendo empatia (infermiere, insegnante, servizi alla persona), sono meno sostituibili dalle macchine. O sulla possibilità che si vada verso una società divisa in due classi: i ricchi che potranno permettersi ancora servizi svolti da personale in carne ed ossa e i ceti impoveriti che verranno serviti da robot inespressivi come quelli che in Giappone hanno cominciato ad accudire anziani e malati.
Bisogna, infine, riflettere sulle diverse condizioni di ogni Paese davanti a questo problema. E, anche qui, purtroppo, l’Italia non è messa bene: secondo uno studio pubblicato pochi giorni fa dalla London School of Economics, il 56% dei lavori in Italia potrebbe essere sostituito entro dieci anni da robot e altre macchine intelligenti. Peggio di noi, in Europa, stanno solo Romania, Portogallo e Croazia. Mentre Gran Bretagna, Francia, Germania, Scandinavia e anche i Paesi baltici, sono meno vulnerabili dell’Italia: hanno un numero più elevato di impieghi - scienziati, artisti, medici, ricercatori, manager - che richiedono molta intelligenza sociale e che non sono ripetitivi.
11 agosto 2014 | 09:07
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