mercoledì 16 maggio 2012

LAVORARE ALLA FIAT, OGGI. BUONACCORSI M., Se questa è una fabbrica, LEFT, 19, 12 maggio 2012

I l gesto più pericoloso è anche il più semplice. Quelli che tutti, ogni giorno, ripetiamo molte volte, per afferrare le chiavi di casa, una penna, la tazza del caffè. Si chiama presa pinch, e in catena di montaggio si usa per assemblare viti, bulloni e quello che in gergo si chiama “minuteria”: migliaia di piccoli pezzi di gomma, plastica, ferro, cavi elettrici e meccanismi di cui è composta un’auto.




Si montano a mano, “prendere e piazzare” si dice nei cartellini di saturazione che calcolano il tempo di esecuzione. La presa pinch si ripete decine di volte per ogni scocca da montare sulla linea, con l’auto ancora spoglia che cammina lentamente e l’operaio la segue passo dopo passo, lavorando sulla lamiera grezza. Ogni ciclo dura tra i 60 e i 90 secondi.

Poi si torna indietro, all’appuntamento con un’altra scocca che arriva. E si ricomincia, 250, 300, 350 volte in sette ore e mezza. Quel gesto comunissimo, chiamato presa pinch, procura il tunnel carpale, un’antipatica malattia delle braccia. Si comincia ad avvertire di notte. Ci si sveglia col formicolìo sulle dita e le braccia addormentate, quel leggero dolore che forse è un solletico, ma non fa ridere. Come quando si ha un laccio emostatico sul braccio, e il sangue non circola bene. Nessuno ci bada, all’inizio. Si continua a lavorare, giorno dopo giorno, finché non si perde la forza nelle mani. Che cedono e gli oggetti cadono per terra. In quel momento l’operaio può avere 30, 40 o 50 anni, ma alla fabbrica non serve più. Ristrutturazione, mobilità, prepensionamento. Bisogna dare spazio a lavoratori più giovani, sani. Gli Rcl, ridotte capacità lavorative – così li chiamano in Fiat – sono sempre i primi a lasciare gli stabilimenti. L’azienda li ha usati finché possibile. Poi si sono rotti, come una macchina. Lo Stato paga loro la pensione, un’indennità per il danno biologico e le cure mediche. E avanti un altro. Gli Rcl in Fiat sono migliaia: la metà dei dipendenti di Melfi (2.500 persone ammalate), 1.500 su 4mila a Mirafiori, 1.700 su 4mila operai alla Sevel. Un esercito di ammalati di lavoro. «Noi facciamo automobili e l’auto nel mondo si fa in questo modo. Chi viene in fabbrica lo sa». Così Sergio Marchionne risponde al direttore di Repubblica Ezio Mauro che all’inizio del 2010 gli chiedeva conto di questi dati. Non è del tutto d’accordo la procura di Torino. Secondo alcune indiscrezioni, lo staff del pm Guariniello ha dato avvio a nuove indagini negli stabilimenti Fiat per capire se in fabbrica si commettono illeciti sulla salute. I tecnici del procuratore si sono recentemente recati a Mirafiori. Ma è presto per sapere se le indagini sfoceranno in un processo come quello che, nel 2003, mise in ginocchio la Fiat.
Ecco i video dell’inchiesta:
Lavorare spezza — Parte I Melfi
Lavorare spezza — Parte II Mirafiori
Condanne
Molti operai hanno contratto la malattia qualche anno fa, quando ancora si lavorava con un metodo chiamato Tmc2. Tmc sta per Tempi movimenti collegati, lo hanno inventato negli Stati Uniti, ai tempi di Taylor. Si chiama organizzazione scientifica del lavoro, ed è una tecnica di misurazione del tempo che un uomo “normale” impiega per svolgere certe operazioni fisiche “senza stancarsi”. Ad ogni gesto corrisponde un tempo, cronometrato al millesimo di secondo. Alla fine degli anni 90 Fiat decise di aumentare i tempi di produzione. Introducendo da un giorno all’altro un nuovo metodo: il Tmc2. «Rispetto a prima gli operai dovevano lavorare una volta e mezza più velocemente», ricorda Enrico Occhipinti, uno dei massimi esperti mondiali di medicina del lavoro. Col Tmc2 la malattia professionale era più che una probabilità. Tanto che nel 2001 il sostituto procuratore di Torino, Raffaele Guariniello, quello del processo sull’amianto e della Thyssen, aprì un’inchiesta. «La Procura aveva ricevuto 387 denunce di malattie professionali», ricorda la dottoressa Lantemo, dirigente dell’Asl 1 del capoluogo piemontese, che seguì come tecnico quelle indagini. «Ricostruimmo la storia professionale di tutti i dipendenti, e in 380 casi trovammo una relazione tra la malattia e il lavoro di fabbrica. L’accusa era lesione colposa, articolo 590 del codice penale a carico dei vertici Fiat», spiega la dottoressa. «Purtroppo in questi casi la prescrizione giunge in appena 5 anni, si andò a giudizio, dunque, solo su 250 casi. E la Fiat patteggiò». Per la prima volta la magistratura metteva piede dentro i cancelli di una fabbrica. «Andavamo lì con la cinepresa, a filmare le postazioni. E prima dei capireparto trovavamo gli avvocati dell’azienda», ricorda il dottor Occhipinti. «Di ogni lavoratore ricostruimmo mansioni e storia lavorativa, per dimostrare che le malattie erano prodotte proprio dal lavoro in fabbrica, e che i vertici aziendali avevano sottovalutato il problema», spiega la dottoressa Lantermo.
Ergonomia
Nel 2004, all’inizio dell’era Marchionne, la Fiat pagò un lauto risarcimento ai lavoratori. Ma fu solo uno dei risultati di quell’indagine, forse il meno importante. La Asl di Torino, infatti, obbligò Fiat a introdurre nuove tecniche di organizzazione di lavoro. I medici costrinsero l’azienda a concedere pause più lunghe e meglio distribuite. E ad analizzare le postazioni di lavoro secondo un metodo chiamato Ocra, che studia l’ergonomia, cioè l’interazione tra uomo e macchina. A inventarlo erano stati due medici italiani, Enrico Occhipinti e Daniela Colombini, del’istituto Epm di Milano. «Il metodo nasce proprio alla fine degli anni90, in relazione al processo intentato dal pm Guariniello. Si basa su 10mila casi clinici, e dimostra come certe operazioni ripetute nel tempo possano produrre malattie professionali», spiega Occhipinti. «I nostri studi dimostrano che la valutazione del rischio deve tenere conto non solo degli sforzi fisici, ma anche delle pause e della ripetitività dei gesti. Anche un’azione di per sé innocua, come muovere un dito, se ripetuta 20mila volte in otto ore, può sovraccaricare il tendine». In parole povere l’Ocra predice la possibilità di ammalarsi. «Tanto che nel 2007 è diventata una norma tecnica di riferimento europea e internazionale», spiega Occhipinti. Nel 2004 Fiat viene dunque costretta a usare quel metodo. Ma nel 2010, dopo l’accordo di Pomigliano, Sergio Marchionne decide di tornare sui suoi passi. Il manager impone a tutto il gruppo una nuova organizzazione del lavoro, chiamata Wcm; una nuova metrica del lavoro, l’Uas; un nuovo strumento di misurazione del rischio ergonomico, l’Eaws. In Fiat il nuovo corso viene chiamato sinteticamente Ergo Uas. E, ci raccontano gli operai, è peggiore rispetto al Tmc2 di vent’anni fa.
Spremuta
«Certo, qualche miglioramento rispetto al passato c’è. Le macchine si alzano e si abbassano, ce le troviamo davanti, non siamo più costretti a stare con le braccia alzate o in posizioni scomode. Però questo miglioramento va tutto a vantaggio dell’azienda. Perché ora si corre come pazzi. E decidono tutto loro. La linea normalmente va a 364, cioè 364 auto prodotte per ogni turno. E già a questa velocità non hai il tempo di bere un bicchiere d’acqua. E se sei raffreddato manco il naso ti puoi soffiare. L’altro giorno siamo saliti a 371 auto, e poi a 378. Non ce la fai più, e ti imbarchi. Si dice così, ti imbarchi, cioè salti il pezzo, che non arrivi in tempo a finire le lavorazioni, e per inseguire la scocca invadi la postazione del tuo vicino». Sergio (il nome è di fantasia) è uno degli operai che lavorano in catena alla Panda, a Pomigliano d’Arco. Qui l’Ergo Uas, il nuovo metodo produttivo di Fiat, è stato applicato nella sua versione integrale. Le linee sono nuove di zecca. Gli operai sono giovani (l’età media è di 35 anni), forti, sani, e nessuno di loro è iscritto alla Fiom. È la fabbrica perfetta, flessibile e produttiva, voluta da Marchionne. Imposta col referendum dell’estate del 2010. La strategia di Fiat è chiara: il nuovo metodo si pone l’obiettivo di rendere il lavoro più comodo, calcolando il rischio ergonomico sulla base di una tabella (l’Eaws), che divide le postazioni in tre gruppi: quelle verdi (comode), quelle gialle (leggermente scomode), quelle rosse (scomode). Quando la postazione è verde, l’azienda può tagliare le pause è aumentare i ritmi di lavoro. Si dice, in questi casi, che la postazione è satura al 99 per cento. La saturazione è il cartellino che viene, o meglio dovrebbe essere dato a ogni operaio. Sopra il foglio sono indicate le operazioni da svolgere e i tempi assegnati. Resta fuori una parte del tempo, chiamato “tempo di dissaturazione”, che serve agli operai per riprendere il fiato o per recuperare eventuali imprevisti. Se la saturazione è al 90 per cento, vuol dire che si lavora su una scocca per 90 secondi, e poi ne passano dieci prima che arrivi l’altra automobile. «Oggi le postazioni sono quasi tutte sature al 99 per cento. Hai presente un limone? Ecco, ci spremono. Vogliono tirar fuori subito tutto il succo. Il mio vicino di postazione ha 40 anni, 10 più di me. A fine turno ogni giorno mi dice: io non ce la faccio proprio. Ecco, io fra 10 anni spero di non essere più qua», racconta Sergio, iscritto alla Fim Cisl. Operaio modello della nuova Fiat.
Trucchi
L’Ergo Uas, oggi, è parte integrante dei contratti di lavoro del gruppo. Chi firma non può contestarlo, o rischia il licenziamento. E i sindacati non possono scioperare contro i tempi di lavoro, o subirebbero sanzioni, a partire dal blocco dei contributi e dal taglio dei permessi. Eppure, l’Ergo Uas ha abbandonato il metodo di calcolo del rischio riconosciuto a livello internazionale, e consigliato anche dal decreto 81, la legge sulla salute nei posti di lavoro. Secondo molti medici l’Ergo Uas sottostima i rischi muscolo scheletrici negli arti superiori rispetto al metodo Ocra. Attraverso quattro semplici stratagemmi, spiega il dottor Occhipinti: «Uno: l’Ergo Uas riduce il numero delle azioni. Ad esempio l’azione “ciclo di avvitatura” per Ergo Uas è una, a prescindere dai giri che si devono dare alla vite. Per noi si calcolava invece un’azione per ogni giro». La conseguenza? «L’ergo Uas, riducendo le azioni sottostima il rischio derivato dalla frequenza, cioè dal numero di azioni al minuto». Secondo, la presa pinch, quella che procura il tunnel carpale: «Per Fiat è a rischio solo se accompagnata dall’uso forza. Per noi era a rischio in ogni caso». Terzo, la posizione delle braccia: «Il nuovo metodo sottostima il rischio che si presenta quando si mantengono le braccia alzate oltre il livello della spalla per lungo tempo». Quarto, le pause: «L’Ocra imponeva pause ben cadenzate nel tempo. Una pausa lunga a fine turno è inutile, perché il fine turno è già una pausa. Invece Fiat ha cambiato il calcolo, con un giochino nascosto». Occhipinti, insieme ad altri esperti della materia ha anche preparato uno studio pratico, analizzando alcune postazioni coi due metodi: L’Ocra e L’Ergo Uas. Il risultato? Nei tre casi studiati il rischio dell’indice scelto da Fiat è inferiore tra il 30 e l’80 per cento rispetto ai dati forniti da Ocra. Quasi tutte le postazioni risultano, quindi, verdi, cioè comode. E se sono “comodi” – sostiene Fiat – gli operai possono lavorare più velocemente. Secondo i calcoli di Fancesco Tuccino, ergonomo della Fiom, con l’introduzione dell’Ergo Uas l’azienda ha aumentato i tempi di circa il 14 per cento. Che equivale a una riduzione del costo del lavoro: con una paga uguale, produci di più. E la differenza la intasca l’azienda.
Malattie
Da anni, ogni mercoledì a Potenza il dottor Giuseppe Durante si reca nella Camera del lavoro e per conto del patronato Inca visita gratuitamente i lavoratori. «Li vedevamo arrivare alla spicciolata, uno o due ogni mercoledì. Tutti molto giovani, tutti operai della Fiat Sata di Melfi. Tutti alla loro prima esperienza lavorativa. Le malattie: tunnel carpale, ernia al disco, epicondiliti, disfunzioni alla colonna vertebrale. Ricordo una madre, di 35 anni. Ci raccontava di non riuscire più a prendere in braccio il proprio figlio». A Melfi la Fiat è nata su un “prato verde”, nel 1994. Una delle più grandi aree industriali del Sud è sorta in mezzo al nulla, nella campagna della Basilicata. Qui, fin dal 1994, gli operai hanno lavorato col Tmc2. Il risultato? 2.500 di loro hanno una malattia professionale. Sono “Ridotte capacità lavorative”. Ma solo in 100 hanno avanzato la richiesta all’Inail, per vedersi riconosciuti il danno. «Hanno paura, temono ripercussioni. L’azienda può anche licenziare, se afferma di non riuscire a ricollocare il lavoratore malato», racconta Vitina Ianielli, funzionaria dell’Inca Cgil. «L’Asl non controlla, ha appena un ispettore. Quindi non ci restava che fare da noi». Tra il 2009 e il 2010 la Cgli ha sottoposto circa 2mila questionari agli operai. Su 700 risposte ha selezionato 250 lavoratori “sospetti” di malattie. Il sindacato ha inoltrato 188 domande, e in103 casi, finora, l’Inail ha dato loro ragione. «L’Inail ha versato loro 330mila euro di indennità. In tutto, ovviamente, circa 3mila euro a operaio». Troppo poco per smettere di lavorare. Quindi, si torna in catena, nonostante la malattia. «In questi casi l’azienda dovrebbe dare ai lavoratori Rcl postazioni più comode. Lo prescrive il medico competente dell’azienda. Ma spesso i capi li fanno lavorare lo stesso su postazioni scomode», spiega Giuseppe Aulicino, direttore dell’Inca di Potenza. Dentro la fabbrica oggi si lavora pochi giorni al mese. Il resto è cassa integrazione. Eppure Melfi, lo stabilimento più produttivo di Fiat, è stato capace di sfornare in meno di vent’anni qualcosa come 5 milioni di autovetture. Quando si lavora, si corre a più non posso. Con o senza miglioramenti: «Le linee sono sempre le stesse, non c’è stato nessun cambiamento ergonomico», racconta una lavoratrice, che vuole mantenere l’anonimato. «Secondo me è peggio del Tmc2. Le posizioni sono sempre le stesse di prima. Ti mimo quella di oggi: prendo il pezzo nel cassone, montaggio pezzo, prelievo minuteria, avvitatura. Poi prelevo chiave, smontaggio a chiave dei tubi, chiusura con polso e dito, montaggio tubi. Dura poco più di 90 secondi e si ripete 250-270 volte. Anche per gli Rcl è tutto uguale, lavorano come prima. E chi sbaglia finisce davanti al Karaoke. Ti mandano dal capo, e lui ti porge un microfono, e ti chiede cosa è accaduto, e registra la tua risposta. Lo fanno per intimidirci».
Conflitti
Che succede quando l’operaio non ce la fa più? Succede che incrocia le braccia e sciopera. Anche oggi, nell’era Marchionne, con le fabbriche che vanno a singhiozzo, la busta paga decimata dalla cassa integrazione e la paura di non rientrare in fabbrica. Le “meccaniche” di Mirafiori hanno scioperato la scorsa settimana. Il motivo? Gli operai non riuscivano a tenere più il ritmo. E hanno smesso di lavorare. «Quando la Fiom era ancora in fabbrica i lavoratori ci chiamavano spesso. Ci raccontavano dei ritmi che aumentavano. Dei mix, delle auto con gli optional, che rendevano il lavoro impossibile. Di postazioni scomode, di pezzi che non si montavano bene, costringendo i lavoratori a usare la forza», racconta Pasquale Lo Iacono, ex delegato della Fiom di Torino. «Allora noi andavamo dall’azienda, chiedevamo i cartellini di saturazione, controllavamo le mansioni, e spesso trovavamo errori. La stessa Fiat non rispettava i suoi ordini scritti. Chiedevamo modifiche. E quando ci rispondevano picche, si andava in sciopero». Scioperi piccoli, di 10, 15, 20 operai. Ma dannosi per l’azienda. «Non comunicavamo l’orario, o al massimo lo dicevamo due minuti prima: stiamo entrando in sciopero. Provavamo a dare il massimo di fastidio, bloccando le altre linee. In catena se fermi un pezzo, si blocca tutto», spiega il delegato. «Attenzione», aggiunge Nina Leone, anche lei ex delegata Fiom di Mirafiori, «questo non è un lavoro leggero. Se devi mettere dei semplici tappini, devi spingerli a uno a uno con le dita. Sotto la vettura è tutto pieno di cavi: devi fissarli a mano, spingendo i fili dentro le canalette. E la vettura in catena si muove. Se lavori sul cofano, monti i pezzi camminando all’indietro. Non stiamo qui a spingere un bottone. E quando l’azienda prova a pressare, oltre i limiti, si va in sciopero». Non per furbizia, per non lavorare: «Quando scioperi perdi salari. Mica ti alzi alla sei di mattina per scioperare. Lo fai perché ce n’è bisogno». «E se uno non lavora bene, fa il furbo, te ne accorgi. A volte, gli scioperi scoppiavano senza neppure informare i delegati. Gli operai ci chiamavano quando erano già in sciopero. La chiamano microconflittualità. Ma oggi se scioperi rischi il licenziamento. Per applicare il nuovo metodo di lavoro hanno disdettato gli accordi del 1971, che ci davano una saturazione massima dell’88 per cento. Ora si passa al 99. Il 60 per cento delle postazioni di Mirafiori viaggiano già a questo ritmo. Così il numero di lavoratori malati è destinato ad aumentare».

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