L’estetica viene solitamente considerata una materia poco rilevante e di essa si occupano solamente alcuni filosofi. Ma si tratta di qualcosa che è troppo importante per abbandonarla a se stessa. Per dimenticare cioè la lezione che Georg Simmel ha lucidamente impartito già alla fine dell’Ottocento: la crucialità della dimensione estetica per la comprensione del funzionamento delle società moderne. Cioè l’idea che il sistema sociale possa essere adeguatamente interpretato solamente analizzando i linguaggi estetici che si applicano alle molteplici forme d’espressione della quotidianità (design, architettura, moda, pubblicità). Dopo più di un secolo di sviluppo delle componenti immateriali nell’economia e nella società, la tesi di Simmel appare oggi più che mai vera e alcuni volumi recenti ce lo confermano.
È noto che viviamo in un’epoca nella quale l’arte ha smesso di essere l’unico centro generatore di bellezza.Il suo ruolo è stato progressivamente ridimensionato da un processo di moltiplicazione delle fonti di esperienza estetica. Tale processo però ha parallelamente attribuito una sempre maggiore importanza al design degli oggetti industriali. Il mondo dunque va sempre più estetizzandosi attraverso gli oggetti collettivi (i prodotti), che hanno sostituito gli oggetti unici (le opere). Questa perlomeno è una delle tesi sostenute nel volume Estetica e design (Il Mulino, pp. 232, euro 15,00) da Andrea Mecacci, docente di Estetica all’Università di Firenze, secondo il quale il processo di estetizzazione è in corso dal 1851, l’anno della Grande Esposizione Universale tenutasi al Crystal Palace di Londra, e da allora è andato progressivamente intensificandosi. Sino alle forme «inflattive» attuali, nelle quali l’illimitata moltiplicazione degli oggetti estetici sembra determinare un indebolimento della stessa dimensione estetica.
Il glamour per la produzione
Mecacci non ha però esplorato in profondità questi processi perché il suo obiettivo primario era di dare vita ad una rassegna ragionata delle principali teorie estetiche del design. Occorre allora guardare ad altri autori, come Gilles Lipovetsky, uno dei più importanti sociologi europei, e Jean Serroy, suo collaboratore da diversi anni, i quali hanno tentato nel voluminoso testo L’esthétisation du monde. Vivre à l’âge du capitalisme artiste (Gallimard, pp. 496, euro 23,50) di tracciare un affresco di larga portata su come il processo di estetizzazione si sia sviluppato nel corso della storia dell’Occidente.
Guido Vitiello, su La lettura del Corriere della Sera del 2 giugno 2013, li ha accusati di avere scritto un libro che «suona come un’apologia del mondo nuovo, un poema-manifesto un po’ prolisso (un futurista se la sarebbe cavata in mezza pagina), tre quarti inno e un quarto elegia». In realtà, l’analisi dei due autori francesi è ben lontana dall’essere apologetica. Infatti, già nell’introduzione del loro volume Lipovetsky e Serroy dichiarano che hanno l’obiettivo di mettere in evidenza l’apporto benefico alla società di quello che chiamano «capitalismo artista», ma anche i problemi insiti in tale nuova forma di capitalismo.
La tesi che sostengono d’altronde è che il capitalismo sta vivendo una condizione paradossale: più tenta di essere razionale ed efficiente, più è costretto a fare ricorso a tutto ciò che è contrario alla razionalità (emozioni, creatività, estetica). Questo perché ha un assoluto bisogno dell’arte e delle sue creazioni, da utilizzare come strumento di legittimazione sociale dei suoi prodotti e delle sue marche. In ultima analisi, per continuare a produrre valore economico. Si spiega così perché l’arte sia stata progressivamente integrata all’interno dell’universo consumista. Vale a dire che oggi i fenomeni estetici non sono più separati e marginali, ma pienamente inseriti nella produzione, nella commercializzazione e nella comunicazione.
Così l’arte ha dovuto radicalmente mutare la sua natura: non più qualcosa che consente di formarsi un gusto e di elevarsi spiritualmente, ma qualcosa invece che eccita, che stimola in continuazione.
Per Lipovetsky e Serroy le prime manifestazioni del capitalismo artista risalgono alla seconda metà dell’Ottocento e nel corso degli ultimi decenni si sono via via intensificate. Pertanto oggi siamo di fronte alla «transestetica», che si fonda sulla combinazione e sul rimescolamento degli ambiti e dei generi, ma anche sull’iperbole e sulla ricerca di eccessi. Inoltre, si diffonde a tutti gli strati sociali, così come si espande progressivamente a livello planetario. Con il risultato di innalzare il livello di competenza estetica di tutti gli individui.
Ma, come si diceva, Lipovetsky e Serroy ritengono che nel capitalismo estetico coabitino aspetti paradossali: ricerca della bellezza e cattivo gusto, estetizzazione e degradazione dell’ambiente, felicità e ansia. Dunque, per questi due autori il capitalismo estetico non è da incensare, né da condannare, ma occorre piuttosto tentare di apportarvi miglioramenti.
Domini aziendali
Decisamente più critiche sono le conclusioni a cui sono arrivati i due studiosi statunitensi Robert Goldman e Stephen Papson nel volume Landscapes of Capital.Representing Time, Space, and Globalization in Corporate Advertising (Polity Press, pp. 222, euro 21,95). Per essi infatti la cultura estetica contemporanea è totalmente dominata dalle imprese, che, attraverso il complesso della loro attività di comunicazione, contribuiscono a realizzare un paesaggio simbolico in grado di influenzare profondamente la società. La loro posizione è frutto di un’impegnativa attività di ricerca sul campo, che ha mostrato come i messaggi delle imprese possono essere poco significativi se vengono considerati isolatamente, ma non se vengono presi nel loro complesso.
Goldman e Papson sono pressoché sconosciuti in Italia, sebbene in passato abbiano scritto insieme due volumi rilevanti. Il primo – SignWars – è uscito nel 1996 ed è stato uno dei primi ad analizzare l’intreccio che all’epoca cominciava già a svilupparsi nelle società avanzate tra gli aspetti economici e produttivi, da un lato, e quelli comunicativi e simbolici, dall’altro. Cioè quell’intreccio che segnalava il passaggio delle economie capitalistiche a una fase nella quale i segni e i simboli vanno progressivamente ad integrarsi nel processo produttivo e possono pertanto rivestire un ruolo centrale nel processo di creazione di valore. Una fase incentrata su un soggetto diventato fondamentale come la marca e che veniva individuata da Goldman e Papson già diversi anni prima che il successo del volume No Logo della giornalista Naomi Klein riuscisse a imporre all’attenzione generale il tema marca.
Lo swoosh che conquista
Il secondo lavoro di Goldman e Papson – Nike Culture – è uscito nel 1998 e ha preceduto anch’esso l’uscita di No Logo. Si trattava di un tentativo riuscito di applicare la visione teorica elaborata in SignWars ad un caso concreto: l’intenso mondo culturale che una grande marca sportiva come Nike è stata in grado di creare in pochi anni. Un mondo che influenza le modalità con cui le persone pensano a se stesse e alla società in cui vivono, perché propone dei valori e degli specifici modelli culturali su aspetti sociali importanti come, ad esempio, la razza, la classe o il genere.
Anche in Landscapes of Capital i due autori statunitensi cercano di mettere alla prova sul piano concreto la loro visione teorica. Presentano infatti i risultati di una vasta analisi compiuta su 2400 spot pubblicitari relativi alla comunicazione di corporate delle imprese americane e dimostrano con chiarezza che tali imprese danno vita ad un vero e proprio paesaggio di tipo estetico che ci avvolge completamente e dove il mondo del lavoro scompare per lasciare spazio alla comunicazione e alla tecnologia, l’istantaneità e la velocità prendono il posto della memoria e della storia, lo Stato viene sostituito dalle stesse imprese e sono assenti le dimensioni relative alla classe sociale, al cui posto si è installato il mondo del multiculturalismo, presentato come armonioso e privo di conflitti.
Insomma, il paesaggio simbolico che analizzano, grazie alla coerenza che possiede sul piano estetico, tende a mascherare le contraddizioni insite nei processi economici e sociali.
Ma ciò che è particolarmente rilevante per questi due autori è che tale paesaggio simbolico non è puramente immaginario e simulacro, ma concreto e materiale. Come viene dimostrato dall’impatto che è in grado di esercitare sulla realtà sociale, esso è piuttosto «ideologico» nel senso indicato già negli anni Settanta da Louis Althusser, che con tale aggettivo intendeva «l’immaginaria relazione dell’individuo con le sue reali condizioni di esistenza».
Alberto Abruzzese – nella sua raccolta di scritti La bellezza per te e per me. Saggi contro l’estetica (Liguori, pp. 162, euro 13,99) – fa osservare che il pensiero occidentale ha sviluppato ai suoi inizi un’idea di armonia che si reggeva sull’equivalenza tra bello, vero e buono, ma anche che in seguito Hegel e una ricca tradizione filosofica hanno evidenziato come l’estetica del bello comporti necessariamente lo sviluppo di una complementare estetica del brutto. E che la letteratura propria della fase di passaggio tra Tradizione e Moderno, non a caso sviluppatasi soprattutto a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, ha tentato ostinatamente di assoggettare il Brutto al Bello, mentre i media contemporanei hanno reso evidente questa doppia anima dell’estetica di oggi. Per cui la televisione, ad esempio, definisce un territorio nel quale il Bello e il Brutto convivono pacificamente. E, più in generale, sono i mercati dei consumi di massa a rendere compatibile il Bello e il Brutto, a rendere cioè sempre più sofisticate le dinamiche di estetizzazione del mondo. Pertanto, viviamo in un’epoca dominata dalla ricerca della bellezza per gli oggetti, gli spazi e i corpi, ma il Bello deve necessariamente accettare di dialogare con il Brutto.
Avvenenti disarmonie
Lo testimonia l’arte contemporanea, che, pur operando un contesto di estetizzazione diffusa,dà frequentemente vita a una vera e propria «antiestetica», cioè a forme disarmoniche e che a volte suscitano persino disgusto. Ma, secondo Abruzzese, artisti come Maurizio Cattelan sembrano addirittura prefigurare l’avvento di una crisi della convivenza tra il Bello e il Brutto. Crisi che risulta ancora più evidente nell’azione svolta dalle nuove tecnologie digitali e dalle loro reti di comunicazione, perché «le reti penetrano e sono penetrate da un’amalgama in cui la carne dei corpi umani è affondata in un territorio ibrido di oggetti, machine e relazioni che è sempre più difficile immaginare separate e distinte dal soggetto sociale così come costruito dai saperi istituzionali».
Pertanto, Abruzzese afferma che si indebolisce quella forza che consentiva sino a poco tempo fa alla bellezza di operare in qualità di codice di controllo dei processi di socializzazione. E si apre lo spazio per una condizione di vita che non sia necessariamente antropocentrica. Non è casuale forse che Abruzzese stabilisca un parallelo con le effimere strutture dei padiglioni delle Grandi Esposizioni Universali, frutto dello sforzo illuminista di controllare l’universo e soggette invece anch’esse a un processo di progressiva decomposizione.
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