In una lettera a un operaio inglese, Karl Marx scriveva a buona ragione che l’opera alla quale stava lavorando avrebbe costituito il più terribile proiettile scagliato contro la borghesia. Non si tratta solo del fatto che Il capitale individua l’unica fonte del valore nel lavoro, mostrando come all’origine dei profitti e della rendita ci sia il lavoro non pagato. A questo risultato, sia pure in termini meno rigorosi, erano giunti anche i socialisti ricardiani e limitarsi a considerare questo solo aspetto sarebbe fortemente riduttivo della ricchezza della critica marxiana dell’economia politica. Per non dilungarmi troppo, indico qui solo alcuni spunti.
1. Occorre distinguere fra oggetti comuni ai diversi modi di produzione (beni, mezzi di produzione, lavoro utile ecc.) e forme sociali storicamente determinate in cui tali oggetti si presentano nel modo di produzione capitalistico (merci, capitale, lavoro astratto ecc.). A differenza di quanto sostengono gli economisti classici, il capitale è visto da Marx come un rapporto sociale storicamente determinato e non solo come un insieme di beni impiegati nella produzione, cosa necessaria e comune a ogni modo di produzione. Ciò comporta che il capitalismo non sia un orizzonte naturale, necessario ed eterno, ma corrisponda a una determinata fase della storia: non è esistito prima, non ci sarà una volta che l’uomo avrà superato questa fase della storia umana.
2. Il capitale costituisce la condensazione, l’accumulo di lavoro sfruttato in passato. Inoltre, i presupposti del capitale – la concentrazione della proprietà dei mezzi di produzione nelle mani del capitalista, l’esistenza di lavoratori spossessati di tali mezzi e l’esistenza di un vasto mercato delle merci – vengono continuamente posti dal capitale stesso, che riproduce su scala allargata le condizioni della propria esistenza.
3. L’economia politica borghese meno avvertita non è andata oltre la percezione delle manifestazioni fenomeniche delle leggi immanenti di questo modo di produzione, che invece proprio la scienza dovrebbe svelare.
4. Viene confutata la legge degli sbocchi nota come legge di Say, secondo cui ogni offerta crea la propria domanda e non è quindi possibile una crisi generalizzata di sovrapproduzione. Inoltre, gli schemi di riproduzione evidenziano quali dovrebbero essere le condizioni da soddisfare perché tale crisi possa essere evitata, condizioni che non necessariamente sono assicurate dai meccanismi spontanei del mercato. Da qui la possibilità della crisi economica.
5. Andando oltre la spiegazione della possibilità della crisi, nell’insieme dei manoscritti marxiani per Il capitale si può ricavare, sia pure in modo frammentario, l’individuazione delle cause che trasformano questa possibilità in effettività: mancata realizzazione del plusvalore estorto (cioè insufficienza della domanda) e caduta tendenziale del saggio del profitto1.
6. Marx è stato capace di prevedere con grande anticipo alcune tendenze e sviluppi del capitalismo: centralizzazione dei capitali, polarizzazione della ricchezza, finanziarizzazione, formazione di un mercato mondiale, progressiva riduzione del contributo del lavoro alla riproduzione umana; sussunzione crescente sotto il capitale della natura e di aspetti della stessa vita e riproduzione umana.
Si può comprendere, allora, come l’espressione utilizzata nella lettera all’operaio non fosse affatto esagerata, così che in questa prospettiva buona parte della storia dell’economia politica borghese successiva a Marx può essere spiegata esattamente come il tentativo di neutralizzare questo proiettile. Un tentativo che è però avvenuto a discapito della comprensione delle caratteristiche del modo di produzione capitalistico e che ha comportato una regressione complessiva della “scienza economica”; i cui limitati progressi sono stati in gran parte derivati proprio da una ripresa, consapevole o meno, di alcune intuizioni marxiane. Lo scopo di questo articolo è ripercorrere gli snodi più significativi di questa storia. In questa prima parte propongo una ricognizione critica della teoria marginalista o neoclassica, inclusi alcuni suoi prodromi e postumi.
2. John Suart Mill
Già Marx poté misurarsi con una corrente che andava alterando con finalità apologetiche il paradigma degli economisti classici e ne trattò diffusamente nei manoscritti poi pubblicati come terzo libro delle Teorie sul plusvalore. Il cambiamento di paradigma era necessario, all’epoca, perché anche la teoria di Ricardo era pericolosa, in quanto non occultava gli interessi contrapposti fra le classi e considerava il profitto come una sottrazione di valore al prodotto del lavoro.
Il pensatore più emblematico di questo filone è John Stuart Mill, il quale può essere considerato per molti aspetti un precursore della svolta marginalista. La filosofia politica di Stuart Mill corrispondeva ai canoni classici del liberalismo più estremo secondo cui le libertà individuali sono prioritarie rispetto alle esigenze sociali, mentre sul piano epistemolgico aderiva al positivismo e sul piano etico all’utilitarismo. Fu anche un apologeta del colonialismo e avversò tenacemente le idee di Marx, che temeva potessero divenire sovversive per la società civile.
Pur dichiarando di voler fornire una sistemazione dell’economia classica e di volerla correggere per salvarla dagli attacchi di Marx, Mill contribuì in realtà al suo superamento, anticipando per molti versi la successiva “rivoluzione” marginalista e operando con ciò una drastica cesura con i classici e con lo stesso Marx.
Per Mill, le leggi della produzione sono naturali e immutabili. Esse non possono subire limitazioni ma devono seguire le libertà dei singoli individui, i quali ricercano naturalmente il proprio utile e la propria felicità. Le leggi della distribuzione del reddito hanno invece un carattere etico-politico. Sono queste ultime che vanno perciò guidate, affinché la ricchezza venga distribuita in modo da trasformarla in ricchezza sociale. Un altro elemento anticipatore del marginalismo è la considerazione del ruolo dell’utilità nel delimitare il valore dei beni. Ma la rottura più importante con Ricardo è la non accettazione da parte di Mill del postulato per cui i profitti sono una grandezza residuale, in quanto sono giustificati come compenso per il contributo che il capitale fornisce alla creazione di ricchezza. Il capitale è quindi concepito come un “fattore” produttivo, un elemento materiale che si combina al lavoro e alla terra nella produzione; come un “fondo” di ricchezza proveniente da lavoro passato che viene accumulato grazie alla virtù del risparmio. Per essere più precisi, allo stesso tempo Mill nega formalmente e conferma di fatto questo potere produttivo, esibendo una clamorosa contraddizione nel giro di pochissime righe:
«Il capitale, rigorosamente parlando, non ha alcun potere produttivo: l’unico potere produttivo è quello del lavoro [... ma del lavoro] assistito indubbiamente da utensili e operante sulle materie prime. Si può forse dire, senza grande improprietà, che la parte di capitale che consiste di utensili e di materie prime possiede un potere produttivo, poiché essi contribuiscono, insieme col lavoro, all’espletamento della produzione. [...] L’unico potere produttivo che esiste è il potere produttivo del lavoro, degli strumenti e delle materie prime»2.
Anch’egli non fa differenza, quindi, fra gli “utensili” e il capitale. Inoltre, il concetto di capitale non include per lui la forza-lavoro, che confonde con il lavoro in quanto tale ed è considerata un fattore produttivo distinto.
Mill ritiene che la domanda di merci non si traduca necessariamente in domanda di lavoro. La decisione se ricostituire o meno il fondo salari mediante il ricavato dalla vendita delle merci prodotte, assumendo lavoratori, spetta al capitalista. Pertanto, a prova della sua visione avulsa dalle condizioni storicamente determinate della produzione capitalistica, Mill afferma:
«Tutto quanto una persona possiede costituisce il suo capitale, purché questa persona possa e voglia impiegarlo non nel consumo a scopo di soddisfazione, ma per procurarsi i mezzi di produzione con l’intenzione di impiegarli produttivamente»3.
I profitti, o meglio la ricchezza che ciascuno possiede, indistintamente dalla classe di appartenenza, vengono dunque o trasformati in capitale o consumati improduttivamente: non è contemplata la possibilità che vengano sottratti alla circolazione. Anche Mill accetta infatti la legge di Say. L’accumulazione di capitale crea lavoro e il capitale non reinvestito viene necessariamente consumato.
All’errore di confondere il capitale, che è un rapporto sociale storicamente determinato del modo di produzione capitalistico, con gli elementi materiali della sua parte costante, si unisce quello di confondere i valori d’uso con il valore. I mezzi di produzione, evoluti quanto vogliamo, contribuiscono infatti certamente a produrre un maggior quantitativo di valori d’uso ma non a produrre più neovalore. Il motivo è che l’intensità capitalistica viene aumentata per produrre merci più a buon mercato, risparmiando quel lavoro vivo che è la vera fonte del valore. Com’è noto, per Marx, il valore dei mezzi di produzione, non a caso denominato ca- pitale costante, viene trasferito tale e quale nel prodotto, senza nessun accrescimento, e anche questo trasferimento avviene grazie al carattere utile del lavoro concreto. I mezzi di produzione si consumano, perdono utilità e – poiché il valore deve necessariamente vivere in un corpo di valore d’uso – perdono valore. Consentendo al lavoro concreto di produrre beni utili, permettono però questo trasferimento di valore. Nessun neovalore proviene quindi dal capitale costante.
Quasi come se la critica di Marx a questo duplice fraintendimento fosse passata inosservata, rintracceremo regolarmente questo errore in quasi tutta la storia del pensiero economico del ‘900 e persino in autori che si dichiarano vicini a Marx. Ne sono un esempio le teorie odierne sul capitale cognitivo, che spesso sfociano nell’affermazione secondo cui le nostre incursioni in Internet, fornendo dati ai signori del web, “valorizzerebbero” gratuitamente il capitale generando una nuova forma di sfruttamento. Va detto, in realtà, che le informazioni che forniamo gratuitamente costituiscono una sorta di materia prima e cioè un valore d’uso privo di valore, come i frutti spontanei della natura, mentre solo il lavoro di chi raccoglie tale materia e cioè di chi la organizza in banche dati e di chi la utilizza valorizza effettivamente il capitale4.
Anche la prospettiva di uno stato stazionario è delineata da Stuart Mill con occhio assai ottimista. Egli afferma, infatti, che il comportamento egoistico individuale, la ricerca della massima ricchezza e potere, è utile finché ci può essere crescita. Una volta raggiunto lo stato stazionario si raggiunge però una situazione ottimale, una sorta di Eden, in cui «nessuno è povero e nessuno desidera diventare più ricco, né deve temere di essere respinto indietro dagli sforzi compiuti dagli altri per avanzare».
3. La “rivoluzione” (o reazione?) marginalista
I diversi tipi di reddito (salari, profitti e rendite) intesi come ricompensa per il contributo di ciascun fattore produttivo sono anche la chiave di volta della teoria marginalista, denominata anche, piuttosto impropriamente, neoclassica. Il concetto viene proposto però in questo caso in maniera univoca, non contraddittoria, e portato alle estreme conseguenze: tutti i fattori produttivi hanno pari dignità, senza nessuna preferenza per il lavoro.
Una serie di autori (Vilfredo Pareto, Carl Menger, Léon Walras, Alfred Marshall, William Jevons, Lionel Robbins, Eugen von Böhm-Bawerk, per rammentare i più noti) contribuiscono, tra il 1870 e i primissimi decenni del secolo scorso, a un nuovo edificio teorico che si contrappone alla critica marxiana attraverso ragionamenti sofisticati ed eleganti. Ragionamenti che però, anche rispetto agli economisti classici, sono inadeguati sia per la loro capacità di rappresentare le condizioni storiche specifiche della produzione capitalistica, sia per l’ampiezza del campo di indagine dell’economia politica (che infatti Robbins, in una sua celebre definizione ancora largamente impiegata, circoscrive allo «studio della condotta umana nel momento in cui, data un graduatoria di obiettivi, si devono operare delle scelte su mezzi scarsi applicabili ad usi alternativi»5). Lo scopo della nuova “scienza” è quello di dimostrare le implicazioni logiche di gusti o bisogni dati a fronte della scarsità e piena versatilità, nel senso della facile sostituzione fra di loro e della loro trasportabilità da una produzione all’altra, delle risorse. Suo presupposto è l’esistenza di un homo oeconomicus in grado di prendere decisioni con la massima razionalità perché a perfetta conoscenza delle condizioni del mercato e delle soddisfazioni che si possono trarre da ciascun uso di tali risorse.
Il regime “naturale” dei mercati è considerato la concorrenza perfetta, in cui ogni bene – non si parla più di merci, a conferma dell’assenza di considerazioni di carattere storico – viene offerto da un gran numero di imprese, ciascuna di irrilevanti dimensioni, fra le quali i compratori si muovono in completa indifferenza. Il monopolio viene trattato solo come un’eccezione a questa regola. In questo mondo idealizzato, gli individui sono atomi che presi singolarmente non possiedono la massa critica per modificare la struttura dei prezzi; mentre, a causa dell’individualismo metodologico dell’approccio marginalista, non sono presi in considerazione i comportamenti delle classi sociali. Il risultato complessivo scaturisce perciò dall’aggregazione dei risultati di singoli atomi.
Il campo di indagine viene qui ristretto allo studio dell’allocazione ottimale dei fattori produttivi e all’ottimizzazione delle scelte dei consumatori, negando la possibilità che il potenziale produttivo resti sottoutilizzato (teoria della crisi) e negando la dialettica fra le classi. Infine, viene trascurato lo studio di come ampliare la disponibilità di tale potenziale. Siamo di fronte in sostanza a una teoria dell’equilibrio generale, stazionario e perfettamente concorrenziale; un equilibrio di piena occupazione e senza classi sociali, nel quale esistono solo individui/atomi poveri di nessi sociali.
È lungo questa strada che si afferma un’altra denominazione di questa disciplina: non più economia politica ma Economics o, secondo la traduzione in auge in Italia, scienza economica. Secondo questa nuova impostazione, il valore del prodotto discende dal grado di soddisfazione soggettiva che i consumatori gli attribuiscono e dal grado di produttività dei fattori produttivi. Dal lato della soddisfazione dei bisogni individuali – cioè della domanda – si afferma la teoria dell’utilità marginale secondo cui, per il singolo soggetto, l’utilità di un determinato bene va diminuendo progressivamente: via via che il bisogno viene soddisfatto, l’utilità prodotta dal consumo di ciascuna dose aggiuntiva dello stesso bene decresce. Il consumatore ha così di fronte a sé un ventaglio di possibili consumi e ogni dose successiva di reddito disponibile verrà utilizzata per acquisire il bene che in ogni momento ha per lui una maggiore utilità marginale (l’utilità della dose finale). Un corollario di questo assunto è che un bene può avere valore solo in quanto scarso. Se se ne dispone in quantità illimitata la sua utilità marginale si azzera e con essa il suo prezzo. La scarsità è pertanto considerata un altro fattore costitutivo del valore.
Dati il “vincolo di bilancio”, cioè la disponibilità di denaro spendibile, e i prezzi di mercato, il consumatore può determinare il mix di beni acquistabili che massimizza la sua soddisfazione. Questo comportamento viene modellizzato attraverso le curve di indifferenza, un fascio di curve che hanno convessità verso l’origine degli assi cartesiani, le quali rappresentano stati che vengono ordinati per livello di soddisfazione. Ciascuno di questi stati coincide con un determinato livello di appagamento raggiungibile con mix alternativi di consumi, essendo i beni perfettamente sostituibili. Mentre la considerazione razionale del vincolo di bilancio e del rapporto fra i prezzi (rappresentati da una retta decrescente) consente di raggiungere la tangenza con la curva di indifferenza che massimizza la soddisfazione individuale data la disponibilità finanziaria e il punto in cui tale curva viene toccata definisce il mix dei consumi che consente tale massimizzazione. Naturalmente, all’aumentare del prezzo di un bene si determina una riduzione della sua domanda in quanto il consumatore razionale modifica il proprio paniere di acquisti riducendo questo bene e sostituendolo con un altro. La curva della domanda ha quindi un andamento decrescente: all’aumentare del prezzo diminuisce la quantità domandata.
Dal lato dell’offerta interviene la teoria della produttività marginale, secondo la quale il contributo alla produzione del singolo fattore produttivo decresce progressivamente qualora si introducano nella tecnica produttiva data successive unità del fattore stesso. Per esempio, se i fattori sono un determinato “bene capitale” e il lavoro, ferma restando una data quantità di capitale, ogni unità di lavoro aggiuntivo introdotto è meno redditizia di quelle impiegate precedentemente. Un altro presupposto è quindi che esista almeno un fattore “scarso”, nel senso che non è incrementabile nel breve periodo.
La nota funzione della produzione Q=f(L,K), dove Q, la quantità del prodotto, è una funzione di L, il lavoro, e K, il capitale, è divenuta l’abc di tutti i corsi universitari di economia. In particolare, lo è diventata quella con la forma assegnatale da C.W. Cobb e P.H. Douglas, Q=A(LaKb), in quanto ha proprietà matematiche che agevolano il calcolo della produttività dei fattori e cioè rappresenta la loro perfetta sostituibilità (elasticità di sostituzione uguale a 1) e le diverse situazione dei rendimenti di scala: costanti con a+b uguale a 1, crescenti con a+b maggiore di 1 e decrescenti con a+b minore di 1.
Per il singolo imprenditore, nel breve periodo, i costi marginali sono crescenti per via della diminuzione della produttività marginale, mentre il ricavo marginale, in regime di concorrenza perfetta, è costante, in quanto il prezzo è per lui un dato del mercato: ciascuno delle miriadi di produttori non può individualmente incidere sui prezzi di mercato. Per lui ci sarà dunque convenienza ad ampliare la produzione fintanto che il costo marginale rimane inferiore al ricavo marginale, potendo così avere un utile dalle dosi di prodotto aggiuntivo. Non avrà invece più interesse a produrre ulteriori quantità del proprio prodotto quando il costo marginale raggiungerà il livello del ricavo marginale: in tale situazione, infatti, un’unità ulteriore di prodotto farebbe ammontare il costo di quella unità al di sopra del ricavo e quindi quella produzione aggiuntiva, anziché fornire un utile, provocherebbe una perdita. Questa situazione di uguaglianza fra costi e ricavi marginali costituisce la posizione di “equilibrio” dell’impresa.
Il caso del monopolio è visto come un caso particolare in cui la curva di domanda non è costante ma il prezzo di domanda decresce al crescere della quantità offerta, in quanto l’impresa monopolistica ha un peso tale per cui la propria offerta incide sul prezzo di mercato. Basta sostituire la retta parallela all’asse delle ascisse rappresentante il prezzo con una curva decrescente e il gioco è fatto6.
Da notare che all’interno di una determinata tecnologia il mix di fattori produttivi ottimali può essere variamente composto. Si può cioè, per produrre una determinata quantità di beni, ridurre un fattore produttivo incrementandone un altro. Si determinano in questo modo curve di isocosto aventi una forma simile a quella delle curve di indifferenza del consumatore. Anche in questo caso la considerazione del rapporto fra i prezzi dei fattori consente, a parità di somma impiegata, di raggiungere l’isocosto che rappresenta il livello produttivo massimo possibile date le risorse e la tecnologia disponibili e il mix ottimale di fattori produttivi. In presenza di tecniche alternative, rappresentabili da due curve di isocosto che si incrociano in un punto, la somma impiegabile e il rapporto fra i prezzi consentono in aggiunta di scegliere quella ottimale. Il punto di incontro rappresenta una sorta di spartiacque: la retta decrescente che rappresenta il rapporto fra i prezzi e il vincolo di bilancio, in ragione della sua pendenza potrà essere infatti tangente all’una o all’altra delle due curve ma in ogni caso una delle due sarà sempre preferita alla sinistra di quel punto e l’altra alla destra.
In questo modo, aggregando le produzioni di equilibrio delle singole imprese si può determinare la curva dell’offerta che ovviamente è crescente rispetto all’andamento dei prezzi: maggiore è il prezzo di mercato più le imprese trovano conveniente realizzare una quantità superiore di prodotto. L’uguaglianza fra costo e ricavo marginale viene raggiunta cioè a un livello superiore di prezzo e di quantità producibile vantaggiosamente e sempre nuove imprese troveranno conveniente entrare in questo mercato.
L’incrocio delle curve di domanda e di offerta determina il prezzo di equilibrio. A quel prezzo, nessun consumatore richiederebbe una quantità inferiore o superiore del bene e nessun produttore ne offrirebbe. Uno scostamento da questo livello (per esempio, l’offerta di una quantità superiore alla domanda) determinerebbe, tramite i movimenti dei prezzi, aggiustamenti che riporterebbero all’uguaglianza fra domanda e offerta. Il mercato consente quindi di raggiungere sempre un equilibrio che è un ottimo paretiano, e cioè una situazione in cui nessun operatore può migliorare la propria posizione senza peggiorare quella di un altro.
È innegabile che i prezzi si formino tenendo conto della domanda e dell’offerta. Tuttavia, tornando un attimo a Marx, i prezzi di mercato oscillano attorno al centro di gravità rappresentato dai prezzi di produzione, i quali scaturiscono a loro volta dalla trasformazione, in un contesto di concorrenza, dei valori; trasformazione che ha per risultato la redistribuzione del plusvalore fra i vari capitali alla ricerca del massimo saggio del profitto. Qui invece la natura del valore è molto più fumosa: l’utilità marginale, la scarsità, la produttività marginale... Insomma, dietro ai formalismi matematici spinti, di cui faccio grazia al lettore, più che una rappresentazione del capitalismo c’è un idealistico mondo ineguagliabile, nel quale ognuno sa alla perfezione ciò che per lui è più vantaggioso fare e nel quale ogni fattore produttivo riceve un compenso in base al contributo che dà alla produzione: in base alla produttività marginale del lavoro per i lavoratori, a quella del capitale per i capitalisti, della terra per i proprietari fondiari e così via. Anche il “costo del lavoro”, il salario, non sfugge alla regola della domanda e dell’offerta: ci sarà domanda da parte degli imprenditori finché il salario non supererà la produttività marginale del lavoro; ci sarà offerta da parte dei lavoratori finché l’utilità del salario – il paniere di beni che sarà possibile acquistare con quel salario – non scenderà al di sotto della “disutilità” del lavorare, cioè del sacrificio che il lavoratore prova prestando la sua dose successiva di lavoro. In tal modo, la piena occupazione è assicurata: se la domanda di forza-lavoro da parte delle imprese è inferiore all’offerta e quindi un certo numero di lavoratori è disoccupato, scenderà il salario di equilibrio facendo accrescere la domanda e diminuire l’offerta fino al punto in cui si raggiunge l’equilibrio. Esiste quindi solo disoccupazione volontaria, costituita da persone che non intendono lavorare al salario “di equilibrio” del mercato del lavoro.
Anche nel mercato finanziario si determina un equilibrio fra domanda e offerta di credito attraverso l’adeguamento del relativo prezzo, cioè il saggio di interesse reale. Così, come il prezzo di una merce si stabilisce al livello in cui la domanda è uguale all’offerta, il saggio di interesse reale, per effetto dei meccanismi del mercato, si attesta al punto nel quale l’ammontare della domanda di fondi per investimenti uguaglia l’offerta di fondi da parte dei risparmiatori. Viene così realizzata dal semplice meccanismo dei prezzi l’uguaglianza fra risparmio e investimenti. Infatti, nel caso in cui la domanda superi l’offerta i detentori di liquidità potranno chiedere un tasso di interesse superiore, fintanto che sussiste una domanda insoddisfatta; al contrario, se è l’offerta che supera la domanda, pur di non tenere infruttuosamente la liquidità, i prestatori si accontenteranno di un tasso di interesse inferiore, invogliando i capitalisti “marginali” a richiedere il prestito. Offerta e domanda, ovviamente, dipendono dall’utilità che viene attribuita a una somma di denaro disponibile immediatamente piuttosto che a scadenza del prestito. Poiché i soldi “pochi, maledetti e subito” sono in genere ritenuti più utili di una ricchezza la cui disponibilità è differita, il saggio di interesse è sempre positivo. Ecco che la realtà di saggi negativi fra istituti di credito e Bce che si è prodotta in tempi recenti in Zona Euro non sarebbe spiegata da questa teoria se non come un’ingerenza della politica o di altri fattori esogeni nell’economia, una spiegazione che – onestamente – non è del tutto priva di fondamento.
Il denaro è visto esclusivamente come intermediario dello scambio, una sorta di buono per acquistare beni, un “velo”, come per i classici. L’aumento della sua immissione in circolo a seguito di una nuova emissione provoca solo inflazione e non interferisce con l’economia reale né in termini di livello della produzione, né in termini di distribuzione del reddito né in termini di prezzi relativi. Si perde completamente la complessità delle funzioni del denaro che Marx aveva individuato.
Leon Walras ha elaborato ulteriori formalismi matematici di una complessità che non rende possibile la loro trattazione in questa sede. Con un sistema di equazioni non lineari, ciascuna delle quali rappresenta un ramo dell’economia, egli dimostra come l’equilibrio generale sia raggiungibile a partire dall’equilibrio delle singole imprese. In condizioni di concorrenza perfetta è possibile determinare un sistema di prezzi d'equilibrio in cui domanda e offerta si eguagliano in tutti i mercati. In questa situazione di equilibrio si verifica anche l'eguaglianza tra costo di produzione e prezzo di vendita per ciascun bene e per ciascuna impresa. Pertanto, i concetti di fondo rimangono quelli fin qui illustrati e si giunge a determinare le quantità di beni prodotti e scambiati e i loro prezzi nella situazione in cui simultaneamente ogni soggetto economico raggiunge il proprio equilibrio sulla base di scelte pienamente razionali degli operatori.
È importante però segnalare due aspetti dello schema walrasiano. Il primo è che i prezzi determinati sono prezzi relativi, cioè rapporti di scambio fra due merci, e che quindi devono essere espressi nei termini di una merce scelta come numerario. L’altro è che per Walras, in regime di concorrenza perfetta e pieno impiego di tutti i fattori produttivi, si realizza un equilibrio generale di lungo periodo in cui si azzerano i profitti delle imprese. Ciò per il fatto che fintanto esistono margini di profitto e fino al loro esaurimento vi sono spazi per l’ingresso di nuove imprese, le quali satureranno il mercato. Tuttavia, questo è per lui solo uno stato ideale verso cui il sistema tende in regime di libera concorrenza, mentre nella realtà non si giunge all’uguaglianza assoluta fra costo dei fattori produttivi e prezzo di vendita del prodotto7.
Tutti questi formalismi del marginalismo sono in sostanza funzionali a rappresentare il modo di produzione capitalistico come il sistema ottimale in cui regna sovrana l’armonia: non ci sono crisi e disoccupazione, a ognuno va il compenso per il suo contributo e nessuno può lamentarsi della propria miseria, che ha radici nelle cose (la capacità individuale, la disponibilità di risorse, la tecnica disponibile ecc.) e non nei rapporti sociali. La stessa fascinazione che alcuni di questi economisti hanno per la meccanica classica newtoniana, i cui strumenti formali consentono di dipingere il capitalismo come un cosmo ordinato, è funzionale a conferire un carattere di scienza naturale alla teoria economica, liberandola da giudizi di valore e dal considerare le connotazioni socialmente e storicamente determinate del modo di produzione capitalistico.
4. Alcune obiezioni
Numerose sono state le obiezioni al marginalismo. Riservando a un prossimo articolo quelle più penetranti, formulate da Piero Sraffa, vediamo qui quelle più consuete.
Il “teorema della ragnatela” (denominazione derivante dall’aspetto del diagramma che lo illustra), curiosamente sparito dai libri di testo di microeconomia, dimostra che introducendo il fattore tempo, e cioè il ritardo con cui gli operatori adeguano le loro decisioni agli esiti della produzione, e in presenza di ipotesi differenziate della pendenza (“elasticità”) delle curve di domanda e di offerta, anziché prezzi e quantità di equilibrio si potrebbe avere un’oscillazione intorno a tali grandezze che può essere costante (equilibrio indifferente), convergente verso il punto di equilibrio (equilibrio stabile), ma anche divergente, e cioè oscillazioni sempre più ampie che si allontanano dal punto di equilibrio (instabile).
Un’altra critica riguarda l’assunzione marginalista di un mercato in cui vi è un’ottimale diffusione di informazioni – necessarie affinché gli operatori decidano in modo consapevole – e i fattori produttivi sono estremamente mobili, trasferibili agevolmente da una produzione all’altra. Non viene immaginata l’esistenza di asimmetrie informative, che Joseph Stiglitz – già presidente dei consiglieri economici di Clinton e premio Nobel per l’economia – ha mostrato essere invece rilevanti, in quanto le informazioni non sono condivise totalmente fra gli operatori economici e viene così avvantaggiato l’operatore che ne possiede maggiori quantità8. Né sono presi in considerazione, del resto, nemmeno i limiti al libero movimento di capitali, le vischiosità derivanti dalla difficoltà di spostare lavoratori e altre risorse da una produzione all’altra.
La validità della teoria marginalista è legata non solo alla sua coerenza interna, che comunque è stata messa seriamente in discussione, ma in misura non inferiore al realismo dei postulati di partenza e alla sua applicabilità alla realtà. Il suo limite essenziale è di essere del tutto incapace di parlare delle caratteristiche delle società in cui viviamo e delle sue contraddizioni. L’economia capitalistica è rappresentata come priva di ogni connotazione di modo di produzione storicamente determinato. Questo approccio è perciò in auge solo perché funziona ottimamente, al pari o meglio dell’economia volgare dei tempi di Marx, come apologia del modo di produzione vigente. Il capitale è visto esclusivamente come un insieme di mezzi di produzione dotati di produttività propria. La distribuzione del reddito scaturisce solo dal contributo produttivo di ciascun fattore e non da un conflitto di classe. Il reddito percepito da ciascun soggetto, quindi, non è altro che il prezzo per i servizi produttivi dei fattori della produzione di cui ciascun soggetto è proprietario. Esiste un’unica situazione di equilibrio, perciò, la quale in assenza di disturbi esterni – per esempio quando lo Stato o i sindacati si ingeriscono nei rapporti sociali – si realizza spontaneamente arrecando il massimo vantaggio per tutti. Le crisi economiche non esistono come risultato delle contraddizioni del modo di produzione capitalistico, quindi, ma tutt’al più come prodotto di fattori “esogeni”, tanto che Jevons poté proporre un’elaborazione statistica che le associava addirittura all’influsso delle macchie solari9!
Per il marginalismo ci sono solo individui e non classi e contano esclusivamente i fattori soggettivi, i calcoli di convenienza dei singoli individui e le loro reazioni all’andamento dei prezzi e non i rapporti di forza, come succede adesempio nella determinazione dei salari. Non c’è nessuna ingiustizia sociale e il valore è una cosa misteriosa, che non si distingue dal prezzo di mercato e che deriva dall’utilità o dalla scarsità dei beni, senza considerare prioritariamente il sacrificio che la società deve sostenere in termini di lavoro sociale allocato per la loro produzione. Si retrocede così perfino rispetto ai grandi economisti classici e agli stessi fisiocratici, per quanto riguarda l’individuazione delle caratteristiche storicamente determinate del modo di produzione capitalistico. Si descrive il raggiungimento dell’equilibrio efficiente nel senso che l’individuo possa trarne il massimo beneficio a prescindere da ogni considerazione di equità, la quale discende semplicemente dai postulati di partenza. In maniera sconcertante, questi economisti “moderni”, i quali a differenza dei predecessori, hanno avuto la possibilità di leggere la critica di Marx all’economia borghese, riprendono pari pari i paradigmi dell’economia volgare, sia pure rivestendoli di formalismi eleganti che giungono all’utilizzo del calcolo infinitesimale e delle equazioni differenziali10.
Per la sua funzione ideologica, questo approccio è diventato l’ortodossia nelle accademie, nell’editoria e nei principali strumenti di divulgazione scientifica, a conferma del detto marxiano secondo cui i possessori dei mezzi di produzione posseggono anche i mezzi di produzione delle idee e delle coscienze. Come accennato all’inizio, pertanto, i contributi più utili all’economia politica costituiscono in misura variabile una presa di distanza da uno o più aspetti di questa visione. Per esempio, l’economista italiano Giovanni Dosi, assai citato in ambito internazionale, ha una posizione piuttosto eterodossa in merito alla tecnologia e contesta l’idea che essa sia guidata prevalentemente dai “segnali” dei prezzi. Inoltre, prende in considerazione l’incertezza, che contrappone alla razionalità e piena conoscenza del contesto da parte degli imprenditori, e l’eterogeneità dei comportamenti di questi ultimi di contro al funzionamento dell'impresa rappresentativa. Un altro esempio è l’ultimo Stiglitz, il quale ha abbandonato la modellistica di ispirazione neoclassica.
Per quanto sinistro, un merito va tuttavia riconosciuto al marginalismo. Esso anticipa l’uomo nuovo creato dal capitalismo sviluppato, l’individuo egoista e isolato, il quale cura individualmente e non in maniera associata i propri interessi, il “massimo edonistico individuale”. Questa caratteristica antropologica si va affermando progressivamente nelle società “civili” e “democratiche”, grazie a un intenso lavoro ideologico ma anche grazie a nuove caratteristiche del mercato del lavoro che tende a frammentare i lavoratori in una sorta di sottoclassi – relativamente garantiti, precari e moderni schiavi privi di qualsiasi tutela – e a rendere più agevole la formazione di un consenso riguardo una presunta contrapposizione dei rispettivi interessi.
È vero che alcuni economisti della scuola austriaca si distinguono per alcuni aspetti da questa impostazione, introducendo elementi istituzionali e di dinamica. Anche in questo caso, tuttavia, i paradigmi essenziali non vengono sconvolti, così che in questa sede possiamo omettere l’illustrazione delle loro teorie (parleremo in altra sede dell’attacco di BöhmBawerk alla teoria del valore di Marx e della presunta contraddizione fra il primo libro del Capitale, in cui si parla dei valori, e il terzo, in cui si parla dei prezzi di produzione). Rimane da dire che gli sviluppi successivi più interessanti dell’economia politica costituiscono una sorta di “eresia” rispetto all’impostazione neoclassica, salva l’eccezione della scuola monetarista di Milton Friedman, che consiste in un importante ritorno a questo paradigma (sia pure utilizzando una strumentazione macroeconomica, non a caso coincidente con una formidabile rivincita del capitale nei confronti delle conquiste del mondo del lavoro).
5. Joseph Alois Schumpeter
Tra gli economisti che, pur accogliendo la teoria marginalista, hanno tratti importanti di originalità e introducono riflessioni più realistiche, figura senz’altro Schumpeter. Allievo di Böhm-Bawerk, pur non elaborando una rottura con l’economia neoclassica e pur non essendo seguace di Marx ha il merito di introdurre nell’analisi la dinamica del sistema economico l’innovazione e la figura dell’imprenditore innovatore. Anzi, per lui è imprenditore solo colui che innova, non chi applica la razionalità per governare il “flusso circolare”. Tali innovazioni possono essere una nuova tecnologia produttiva, nuove modalità organizzative del lavoro, nuovi prodotti da collocare nel mercato, nuove modalità di distribuzione del prodotto, nuovi sbocchi di mercato, nuove fonti di approvvigionamento delle materie prime, e così via. L’oggetto della sua analisi, pertanto, non è la definizione di un equilibrio statico o la creazione di modelli formali bensì l’indagine sul movimento di questo sistema. Egli si occupa dello sviluppo, considerato – al pari del profitto – un risultato della genialità degli imprenditori. Aderendo alla scuola neoclassica, condivide l’idea walrasiana che il profitto, in una situazione di equilibrio, tenda ad azzerarsi. Ma questo equilibrio è continuamente turbato dall’imprenditore, il quale si assicura margini eccezionali di guadagno e promuove nel contempo il progresso economico. Il profitto perdura però solo fino al momento in cui l’innovazione si generalizza e quindi vengono meno i vantaggi competitivi di chi l’ha prodotta. Si formeranno nuovamente profitti quando un altro imprenditore introdurrà una nuova innovazione. Il profitto esiste quindi solo come compenso dell’imprenditore innovatore. Se i profitti tendono ad azzerarsi a ogni generalizzazione delle innovazioni, non è così per il progresso economico. Ogni volta i benefici si cumulano e il nuovo equilibrio si attesta su un livello di produttività superiore al precedente.
Altra profonda differenza con in neoclassici è che le scosse anche violente che l’economia subisce non sono rimandate a cause esogene, cioè a disturbi provenienti dall’esterno dei meccanismi economici, ma alle sue stesse leggi di movimento. In ciò – riconosce esplicitamente l’antimarxista Schumpeter – l’oggetto della sua ricerca si avvicina più a quello di Marx che a quello dei suoi “maestri” marginalisti.
Schumpeter considera il capitalismo un sistema economico in costante evoluzione, caratterizzato da rotture che ne modificano e potenziano le capacità. Le crisi sono quindi un momento positivo di “distruzione creativa”, in cui l’imprenditore distrugge, mettendole fuori mercato, le imprese meno competitive e incapaci di innovare mentre ne sorgeranno di nuove e più valide. L’alternarsi di fasi espansive e recessive del ciclo economico – è così che preferisce chiamare le crisi – non sono che la modalità discontinua con cui vengono introdotte le innovazioni.
Quindi, pur negando la sovrapproduzione e aderendo alla legge di Say, egli riconosce che le crisi sono connaturate al capitalismo, sia pure con la suddetta connotazione positiva. Le innovazioni, infatti, non vengono introdotte in misura costante nel tempo, ma si concentrano “a grappoli” in alcuni periodi caratterizzati da una forte espansione ed euforia. Le innovazioni significative determinano modifiche profonde degli assetti produttivi, stimolano altre innovazioni, provocano le reazioni di altri imprenditori e quindi attivano una sorta di boom degli investimenti e dei livelli produttivi. Al momento della saturazione dei mercati per effetto dell’emulazione della concorrenza, le imprese non in grado di innovare verranno spazzate via o comunque vedranno decrescere il loro ruolo, alcune falliranno o comunque concorderanno con i creditori modalità di svalutazione dei loro debiti. Il sistema creditizio, che aveva assecondato la fase espansiva con credito facile alle imprese e ai consumatori, è costretto a restringere i cordoni della borsa e potrà andare in crisi a causa delle imprese insolventi e si assisterà quindi a una fase di depressione che riporterà il sistema in equilibrio. Tale equilibrio si sconvolgerà nuovamente quando si avvierà un nuovo ciclo innescato dall’introduzione di un grappolo di nuove combinazioni produttive. Ciascun ciclo, quindi, si attesta a un livello superiore rispetto ai precedenti.
Elemento rilevante della costruzione schumpeteriana è la distinzione fra l’imprenditore e il capitalista che gli mette a disposizione i necessari mezzi finanziari. In tal modo si distingue anche l’interesse, che spetta ai capitalisti, coloro che anticipano il capitale, dal profitto che spetta agli imprenditori innovatori. Nel caso in cui le due figure siano presenti in un’unica persona, il guadagno deve essere comunque concettualmente distinto in profitto e interesse.
Contrariamente a Marx, Schumpeter individua la fonte del profitto non nel pluslavoro ma nella capacità innovativa, non nel rapporto fra capitalista e lavoratore ma dal contributo dell’imprenditore alla produzione, così come il salario dipende dal contributo produttivo del lavoratore. Da questo punto di vista, quindi, c’è poco di diverso rispetto ai neoclassici. L’unica novità è che il profitto è considerato un elemento transitorio che gradualmente si azzera. Infatti, il surplus di offerta dei prodotti determina prima o poi una diminuzione dei loro prezzi e quindi degli introiti, mentre il surplus di domanda di materie prime, macchine, terra ecc. derivante dall’espansione produttiva determina un accrescimento dei costi. Il vantaggio competitivo dell’imprenditore non rimane quindi tutto per lui per lungo tempo ma prende la strada dei profitti per chi produce i mezzi di produzione a lui necessari (sempre finché anche il mercato dei mezzi di produzione si satura) o dei profitti di chi più tempestivamente imita l’innovazione.
Un’obiezione di fondo a questa tesi è che il profitto e l’interesse, al pari dei salari, non sono altro che quote del valore complessivo prodotto; prima di giustificare la ripartizione di tali quote, bisognerebbe spiegare da dove viene questo valore complessivo. E su questo Schumpeter è silente. È evidente, pertanto, che nella sua teoria è presente un’aporia.
Anche la definizione di capitale è conseguente alla sua impostazione di fondo. Il capitale non consiste né di beni, di mezzi di produzione ecc., né di denaro, di cui gli imprenditori sono per definizione sprovvisti. Essi, per introdurre le nuove combinazioni, hanno bisogno solo di mezzi di pagamento, i quali, se la figura dell’imprenditore e del capitalista non coincidono, vengono creati dal sistema bancario e creditizio. Il vantaggio competitivo che ottengono con l’innovazione consente loro di pagare l’interesse per i mezzi di pagamento ottenuti in prestito e di trattenersi un profitto. L’innovazione è dunque la fonte sia dell’interesse sia del profitto. Quando quest’ultimo cessa, si spegne con esso la figura dell’innovatore, salvo il caso che riesca a introdurre ancora nuove combinazioni. Il capitale è la «leva che consente all’imprenditore di sottomettere al proprio dominio i beni concreti di cui ha bisogno» per la sua attività e al fine di introdurre nuove combinazioni nel processo produttivo. Egli acquista questi beni in cambio di moneta: se la possiede pretende di essere retribuito anche con un interesse, se la prende in prestito paga tale interesse al capitalista.
Il capitale, quindi, è un «agente autonomo» presupposto all’attività imprenditoriale e termina la sua funzione quando l’imprenditore l’ha impiegato per acquistare i fattori produttivi. Per essere imprenditori non occorre il possesso di tale somma, poiché non soltanto la moneta, ma anche qualsiasi mezzo di circolazione che adempia a tale funzione, per esempio i titoli di credito o i prestiti bancari, può funzionare da capitale, a patto che venga impiegato per l’attività produttiva e innovativa dell’impresa: senza capitale non c’è sviluppo. Questa definizione del capitale toglie però importanza al ruolo cruciale e alla specifica natura dell’accumulazione capitalistica.
Quindi Schumpeter, al pari di Marx (e, come vedremo, di Keynes), attribuisce alla moneta e agli altri mezzi di pagamento una funzione essenziale che non è solo di intermediario dello scambio. I creditori, principalmente le banche, creano potere d’acquisto per l’imprenditore, consentendogli di esplicare il suo ruolo e di accedere ai fattori utili alla sua impresa. In tal modo, però, separando nettamente la figura del capitalista da quella dell’imprenditore e sostenendo che si può essere imprenditori senza capitale, si mitologizza questa figura che guadagna solo in virtù delle sue capacità, omettendone il rapporto conflittuale con i lavoratori e nascondendo quel suo potere nei loro confronti che deriva dal possesso dei mezzi di produzione11.
Il pregio fondamentale della teorizzazione di Schumpeter è dunque la visione non statica dell’economia, che gli ha consentito di mettere in grande risalto le dinamiche del sistema capitalistico, il ruolo degli innovatori, la potenza della loro distruttività creativa e le ripercussioni della loro azione sulla concorrenza, sullo sviluppo economico e sulle crisi economiche. Siamo oltre le rappresentazioni statiche e largamente ideali della concorrenza in auge tra gli economisti mainstream della sua epoca. Bisogna tuttavia considerare anche i limiti della sua eterodossia. La parte più conformista della sua analisi consiste proprio nell’adesione al paradigma del marginalismo dei suoi maestri, nonostante la profonda presa di distanza dal loro metodo e dal loro oggetto di studio. In tal modo, le sue geniali intuizioni non gli consentono di superare alcune difficoltà dei neoclassici.
Non che Schumpeter sposi del tutto la visione idilliaca dei marginalisti. Secondo lui, una teoria che presume operatori che si limitano ad adeguarsi razionalmente ai cambiamenti esogeni (istituzionali, culturali ecc.) descrive anche un sistema che non si evolve, che riproduce se stesso senza sviluppo, e ciò è quanto mai distante dalla realtà. Tuttavia, non si sottrae all’idea marginalistica per cui la razionalità economica conduce all’azzeramento dei profitti nella concorrenza e nel flusso circolare, in cui i produttori si limitano ad operare razionalmente come perfetti funzionari, laddove l’imprenditore sarebbe invece fatto di una pasta speciale. Questa figura ha la genialità che il semplice uomo razionale non possiede. Ha doti non comuni ed è il vero protagonista dello sviluppo. Schumpeter ipotizza addirittura una distribuzione statistica della loro presenza secondo la classica curva normale, a campana, in cui la frequenza, che è assai bassa per i meno dotati, tende ad aumentare gradualmente man mano che la genialità cresce e raggiunge una frequenza massima per i medio-dotati per poi nuovamente e progressivamente diminuire per i più geniali. Questo elogio dell’imprenditore non gli impedisce però di essere pessimista sul futuro del capitalismo, che a suo avviso oltre un certo grado di sviluppo è destinato a scomparire per fare posto a una società diversamente regolata ma con connotazioni non altrettanto positive.
La teorizzazione della figura dell’imprenditore senza mezzi di pagamento propri ha un elemento di debolezza nella circostanza che molto frequentemente il credito viene concesso non tanto per la genialità dell’imprenditore, che difficilmente le banche sono in grado di valutare, quanto per la sua solvibilità presunta, la quale dipende in larga parte dalla disponibilità, appunto, di mezzi economici propri. «Le banche», diceva ironicamente e con sagacia Mark Twain, «sono come quello che ti presta l’ombrello solo quando non piove». Inoltre, è altrettanto evidente che un imprenditore, sia pure dotato della massima genialità, può venir spazzato via come un fuscello da un concorrente meno geniale ma dotato di cospicui mezzi propri. Quest’ultimo, infatti, può permettersi perfino di produrre temporaneamente in perdita per conseguire tale scopo.
Anche l’ipotesi della spiegazione della periodicità del ciclo con la caratteristica “a grappoli” delle innovazioni potrebbe essere messa in discussione. A parte alcune innovazioni epocali – quali l’introduzione del vapore, del petrolio, dell’energia elettrica, dell’informatica, della robotica ecc. – che ovviamente hanno determinato modifiche all’ambiente economico tali da innescare fasi di sviluppo eccezionali e durevoli, come si formano i “grappoli” attorno alle eccellenze? Come si spiega la periodicità piuttosto regolare delle crisi? È da presumere che o le eccellenze sono tali, cioè eccezionali, e allora i cicli dovrebbero verificarsi con una temporalità del tutto imprevedibile, oppure sono distribuiti casualmente nel tempo e, avendo ciascuno attorno a sé un grappolo di imprese, con i grappoli di diverse innovazioni che possono anche sovrapporsi, mediamente il sistema economico dovrebbe evolversi senza eccessivi alti e bassi, un po’ come la distribuzione di una media aritmetica tende a “normalizzare” gli alti e bassi di una serie statistica.
Fuori dai tecnicismi, va considerato che è il capitale che organizza la ricerca e successivamente introduce le innovazioni, assoggettando a sé la scienza e la tecnologia. Ma lo fa di norma non in ragione della genialità degli innovatori, bensì in dipendenza del contesto economico e ambientale (in senso lato, includendovi la disponibilità di risorse, la qualità della forza-lavoro disponibile, il suo potere contrattuale, gli assetti proprietari, la disponibilità di credito, e così via). La distribuzione delle innovazioni riflette queste opportunità offerte dall’andamento dell’economia. Anche dove c’è il genio, intorno alla sua grande innovazione si forma il grappolo solo se questo contesto ambientale è favorevole. Limitandosi a considerare elementi naturali, come la distribuzione statistica dei geni, Schumpeter pare non discostarsi troppo dal peccato originale della maggior parte degli economisti borghesi e dalla loro naturalizzazione dei rapporti sociali.
Ma il suo maggior punto di debolezza è la visione edulcorata del capitalismo che lo porta a ignorare che le crisi dipendono da criticità, da caratteristiche contraddittorie di tale sistema, da aspetti che ne mostrano i limiti intrinseci. Al contrario, egli le considera univocamente come dimostrazione di vitalità di questo modo di produzione e in quanto funzionali allo sviluppo. Ed è a tal punto convinto degli effetti benefici del ciclo economico che ritiene ogni sforzo volto ad attenuarlo e a contenere le sofferenze delle classi svantaggiate dannoso e deprimente le possibilità di crescita offerte dalle virtù degli imprenditori, ragione che lo ha portato a opporsi anche al riformismo keynesiano. Se è indubbio che ogni crisi profonda porti con sé trasformazioni economiche e sociali altrettanto profonde, però, non è in realtà scontato che queste siano foriere di progresso ma possono recare con sé guerre spaventose e riduzioni degli spazi democratici.
Sul piano analitico è significativo che egli neghi la possibilità della sovrapproduzione di merci e di capitale dovuta alle contraddizioni del processo di accumulazione: quella tra l’impulso all’allargamento della produzione e l’impulso al contenimento dei consumi dei lavoratori e quella che consiste nella tendenza a risparmiare lavoro avendo nel contempo nell’“eccedenza di lavoro” l’unica fonte del profitto. Del resto, vista la sua definizione di capitale, è possibile parlare di accumulazione capitalistica solo in termini molto diversi da quelli classici e marxiani. Gli imprenditori possono accumulare ricchezza solo temporaneamente. Questa ricchezza può o meno trasformarsi in capitale. Non esiste profitto da accumulare nelle aziende del flusso circolare dell’economia. I capitalisti possono invece accumulare interessi e rendite. Tali somme possono successivamente essere date a prestito. In ogni caso la loro accumulazione non è legata al livello dei profitti se non in via indiretta, tramite l’influenza della domanda di capitali sul tasso di interesse. Non è presente quindi nell’orizzonte di Schumpeter alcun riferimento al lavoro non pagato come fonte di ultima istanza dell’accumulazione. Non sembra affatto un caso che le dottrine e le politiche economiche liberiste che si sono affermate negli ultimi quarant’anni – le quali certamente non hanno incrementato il benessere generale e comunque hanno peggiorato le condizioni dei lavoratori – abbiano attinto, più o meno esplicitamente, anche al suo lascito.
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Parte seconda
1. Keynes e l’arduo compito di salvare il capitalismo
Proseguendo la ricognizione iniziata nel numero scorso di questa rivista, esaminiamo il pensiero del barone inglese John Maynard Keynes, probabilmente il più influente fra gli economisti del XX secolo, sia per la sua teoria innovativa rispetto al costrutto marginalista, sia per avere svolto un ruolo di primo piano in alcuni tavoli in cui si decidevano le sorti del mondo. Keynes, come è noto, fu rappresentante economico del Tesoro inglese alla Conferenza di pace di Versailles al termine della Prima guerra mondiale, incarico da cui si dimise in dissenso con le misure eccessivamente punitive nei confronti della sconfitta Germania, in quanto prevedeva che tali misure avrebbero sconvolto l’economia di quel Paese, come in effetti avvenne durante la Repubblica di Weimar, favorendo così l’ascesa al potere di Hitler. In vista della vittoria alleata nella Seconda guerra mondiale, fu alla guida della delegazione inglese ai negoziati di Bretton Woods, i quali partorirono il cosiddetto “gold standard”, che ha regolato le vicende monetarie internazionali fino alla sospensione della convertibilità del dollaro da parte di Nixon negli anni ’70. Quell’accordo, come pure è noto, sancì la supremazia del dollaro negli scambi internazionali, mentre Keynes caldeggiava l’introduzione di una moneta sovranazionale.
Nell’ambito dell’economia borghese, pur dichiarandosi anch’egli seguace della scuola neoclassica, la sua analisi, a differenza di quanto avviene per il pur eterodosso Schumpeter, rompe con le ipotesi principali del paradigma neoclassico. Formatosi sotto l’influsso della teoria dell’equilibrio marshalliano, se ne discosta gradualmente a partire dal Trattato della moneta12 per approdare a un definitivo allontanamento dall’edulcorata idea del mondo dei marginalisti, fatta di piena occupazione e di virtù indiscussa del libero mercato. Infatti, pur essendo egli un tenace oppositore delle idee socialiste, riconosce alcuni limiti dell’economia capitalistica. Vista l’incapacità della smithiana “mano invisibile” del mercato di assicurare la piena occupazione dei fattori, si preoccupa di fornire un supporto teorico alle politiche pubbliche in grado di intervenire su questo difetto. Lo scopo è di rendere il capitalismo, di cui non auspica il superamento, socialmente sostenibile e in grado di confrontarsi, anche sul terreno dei diritti sociali, con le temute economie socialiste. Egli suggerisce pertanto una serie di politiche per “salvarlo” rendendolo più vicino all’efficienza e al soddisfacimento dei bisogni umani.
Il principio del laissez‐faire, per lui, si basa sull’ignoranza del contrasto tra interesse individuale e interesse sociale e su ipotesi irrealistiche rispetto alle caratteristiche delle moderne economie. L’intervento statale, nel caso che la domanda aggregata sia insufficiente a garantire la piena occupazione, dovrebbe consistere in misure di politica fiscale e monetaria espansive, tramite la pratica della spesa pubblica in disavanzo. Il capitalismo di impronta individualistica deve essere quindi corretto attribuendo allo Stato compiti volti ad attenuarne i caratteri negativi. A tale scopo Keynes è anche favorevole a un patto sociale tra imprenditori, lavoratori e Stato che garantisca piena occupazione e retribuzioni “adeguate” e per mirare a rendere compatibili le aspirazioni dei lavoratori con i principi liberali.
La sua opinione su Marx è stata espressa in diverse occasioni, in alcune delle quali ha fatto uso anche di espressioni di disprezzo, oltre che del marxismo (specie di quello orientale), della cultura socialista e operaia in genere ma anche degli slavi e degli ebrei, mostrando di muoversi in continuità con una certa cultura liberale13. Sono consapevole delle obiezioni di chi non ritiene decisivo l’antisocialismo di Keynes, dovuto anche al clima maccartista dell'epoca, così come dei diversi tentativi di conciliare o sintetizzare keynesismo e marxismo. Ritengo però che sia giusto conoscere anche ciò che è sgradevole, per cui mi si consenta almeno questa citazione:
«Il socialismo marxista deve sempre rimanere un portento per gli storici del pensiero; come una dottrina così illogica e stupida possa aver esercitato un’influenza così potente e durevole sulle menti degli uomini e, attraverso questi, sugli eventi della storia»14.
Va dato atto, tuttavia, che gradualmente Keynes si circondò di personaggi non ostili o addirittura vicini al marxismo quali Michal Kalecki, Maurice Dobb, Piero Sraffa e alcuni seguaci della scuola di Sraffa, e che certi eccessi potrebbero essersi modificati, pur non avendo noi trovato riscontri di questa ipotesi.
Sta di fatto che sia in ambito socialista che in ambito liberale si sono tentate sintesi per rendere il suo pensiero compatibile con l'uno o con l'altro filone. Ne sono esempi da un lato la ricerca di Giorgio Lunghini15 e dall'altro la cosiddetta sintesi neoclassica che cerca di rendere compatibili con l'ortodossia alcuni aspetti della teoria keynesiana.
2. Il Trattato della moneta
Come accennato in precedenza, i primi elementi di rottura con la tradizione neoclassica emergono già nel Trattato. Se Marshall era contrario all’intervento sistematico dello Stato nell’economia, nel timore che potesse condurre a una perdita di efficienza del sistema economico, Keynes lo auspica. Entrambi ritengono che la domanda di investimenti sia influenzata dall’andamento del tasso di interesse ma si posizionano su fronti contrapposti rispetto all’opinione che il mercato non guidato possa assicurare la piena occupazione.
L’attenzione alla distribuzione del reddito e il riconoscimento della contrapposizione di interessi tra le classi, lo avvicinano al lascito ricardiano e le differenze rispetto a Ricardo derivano principalmente dai cambiamenti nel frattempo intervenuti nel capitalismo, oltre a una certa influenza del marginalismo. Il peso della rendita fondiaria è divenuto secondario rispetto a quello della rendita finanziaria, la quale svolge non meno della prima un ruolo negativo, mentre l’irrompere delle lotte della classe lavoratrice inducono in Keynes il proposito di mitigare queste tensioni riassorbendole all'interno della logica capitalistica, in cambio della piena occupazione, di una distribuzione meno iniqua e di welfare, considerati fattori stabilizzanti.
Se l’ortodossia considerava ogni allontanamento della realtà dalla teoria liberale come un fatto patologico e contro la natura del sistema economico, egli invece vede queste imperfezioni come elementi ad esso connaturati, specie nel capitalismo maturo e quindi esorta a disinnescarle. In tal modo il sistema capitalistico potrebbe divenire più efficiente, e socialmente più accettabile anche rispetto ad alcune temute possibili alternative, quali il fascismo e il “bolscevismo” ma pure, in una certa misura, il socialismo, anche rispetto al quale ha sempre rivendicato la propria distanza.
Nel Trattato, al pari degli schemi di riproduzione marxiani, il confronto fra domanda e offerta si avvale della distinzione fra il settore che produce mezzi di produzione, che Keynes denomina “beni strumentali”, e quello che produce beni di consumo. Gli imprenditori assumono le decisioni in merito alla produzione e, dati i costi dei fattori produttivi e la remunerazione “normale” dei capitalisti, si determina il reddito disponibile per la spesa di lavoratori e imprenditori. Chi percepisce questi redditi può spenderli in consumi o risparmiarli, con decisioni che possono non soddisfare i requisiti dell’equilibrio. Infatti, il reddito indirizzato verso i consumi non dipende direttamente dal costo di produzione dei beni di consumo. Da qui la possibilità di una mancata corrispondenza fra il prezzo di mercato dei beni di consumo e i loro prezzi di produzione e quindi fra i profitti realizzati sul mercato e la remunerazione normale degli imprenditori del settore.
Un analogo disequilibrio vale per il mercato dei beni strumentali, il cui prezzo di mercato dipende, come vedremo meglio in seguito, dalle aspettative degli imprenditori, dal comportamento del sistema bancario e da quello dei risparmiatori, e può quindi differire dal corrispondente prezzo di produzione.
La netta distinzione tra le decisioni di risparmio e di investimento, e la loro possibile disuguaglianza, fa sì che oltre al caso di squilibrio settoriale possa verificarsi anche un eccesso o un difetto della domanda globale rispetto al valore di equilibrio della produzione, cioè un disequilibrio generale che può portare alla formazione di perdite. Da notare che, nonostante in questo contesto gli squilibri vengano denunciati in termini di prezzi difformi dai redditi, resta difficile non immaginare che la barba di Marx con i suoi schemi di riproduzione, in cui gli squilibri si presentano sia in termini di quantità che di valore, abbia in qualche modo influito su questo approccio.
A differenza di Marx, però, Keynes tiene distinti due casi di disequilibrio: quello in cui, pur valendo la condizione di equilibrio generale, investimenti uguali ai risparmi (I=S), si hanno squilibri nei due settori di eguale ampiezza e di segno opposto, che quindi si compensano, e quello in cui si ha disequilibrio generale dovuto ad una differenza positiva o negativa tra I e S. Egli giunge a concludere, in accordo con Ricardo, che mentre gli squilibri puramente settoriali tendono a scomparire, il disequilibrio generale non si elimina se non intervengono altri fattori. Di diversa opinione è Marx per il quale gli squilibri parziali danno luogo a ripercussioni fra i vari settori, amplificandosi grazie al meccanismo del moltiplicatore (per l’appunto!), che Keynes, in questa fase della sua elaborazione, pare non prendere adeguatamente in considerazione.
In sede di critica a Ricardo, che ammetteva solo la saturazione del mercato per singole merci, Marx coglie gli effetti generali di una sovrapproduzione parziale. Per lui vi è sovrapproduzione «soltanto perché la sovrapproduzione non è universale». Se vi fosse una sovrapproduzione nella stessa proporzione, ovunque «tutte le sfere di produzione conserverebbero il medesimo rapporto reciproco; dunque sovrapproduzione universale è lo stesso che produzione proporzionata»16.
«Non vi sarebbe sovrapproduzione se la domanda e l’offerta si bilanciassero, se la ripartizione del capitale fra tutte le sfere di produzione fosse talmente proporzionata che la produzione di un articolo implicasse il consumo dell’altro e quindi il suo proprio consumo. Non vi sarebbe sovrapproduzione se non vi fosse sovrapproduzione. […] Non vi sarebbe sovrapproduzione da una parte se vi fosse uniformemente sovrapproduzione da tutte le parti. Ma il capitale non è così grande da sovrapprodurre così universalmente e per questo si ha una sovrapproduzione universale»17.
3. La Teoria generale
Nella sua opera principale, la Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, Keynes critica aspramente la legge di Say con un argomento identico a quello di Marx, cioè il ruolo della moneta che fa venire meno la coincidenza immediata fra atto di acquisto e atto di vendita, fra domanda e offerta, tipica del baratto, anche se il Moro, grazie alla sua visione dialettica e alla sua verve polemica, articolò più densamente la sua confutazione. In ogni caso viene accettata la possibilità che si verifichino crisi nel caso in cui non tutto il reddito prodotto venga speso. Ma su questo niente di nuovo sotto il sole rispetto al pensiero di Marx e, prima di lui, di Thornton, Sismondi, Malthus e altri.
Per i marginalisti, la disoccupazione è causata da salari che sono troppo alti in virtù di rigidità istituzionali (i sindacati ecc.). Lasciandoli abbassare secondo le regole del mercato aumenterebbe la domanda di forza-lavoro e scenderebbe la disoccupazione fino a giungere a un equilibrio. In tale situazione chi non lavora, come abbiamo visto trattando questa scuola, è da considerare un disoccupato volontario.
Per Keynes invece è cruciale il concetto di domanda aggregata, la domanda totale di merci in un determinato sistema economico, il cui livello può essere inferiore a quello dell’offerta aggregata potenziale e – dato che l'offerta deve adeguarsi alla domanda per non determinare produzioni invendute – non sufficiente ad attivare un livello della produzione in grado di impiegare l'intera forza-lavoro e l'intera dotazione di mezzi di produzione. In tale caso siamo in presenza di un potenziale produttivo inutilizzato e della contrazione delle attività produttive. Si ha l’equilibrio quando gli investimenti sono uguali al reddito non consumato (risparmi)18.
Una delle sue più importanti scoperte è il moltiplicatore degli investimenti, in realtà già esposto dal suo stretto collaboratore Richard Ferdinand Kahn e precedentemente da Michal Kalecki. Semplificando, in condizione di sottoccupazione, un investimento, o in generale una qualsiasi spesa aggiuntiva autonoma, cioè indipendente dal reddito, è capace di incrementare la domanda, e con ciò il prodotto nazionale, in una misura multipla del suo importo. Tale moltiplicatore è tanto più grande quanto più lo è la quota dei redditi spesa in consumi (propensione al consumo). Allo stesso modo, una diminuzione di spesa, riducendo la richiesta di beni di investimento, innesca una spirale perversa che moltiplica il deficit di domanda. Un simile meccanismo era già stato intuito da Marx, anche se espresso in maniera discorsiva e non formalizzata. Per esempio, in un passo delle Teorie sul plusvalore, osservò che la carenza iniziale della domanda in un’industria possa innescare un effetto domino con ripercussioni in tutto il sistema, determinando una generalizzata scarsità della domanda e una conseguente disoccupazione19.
Il meccanismo del moltiplicatore è il seguente. Se un’economia non è in piena occupazione, cioè ha forza lavoro e mezzi di produzione inutilizzati in quanto c’è carenza di domanda, una spesa aggiuntiva in investimenti si traduce immediatamente in una domanda aggiuntiva di pari importo. Inoltre le imprese che producono le merci necessarie a soddisfare questa domanda, per poterlo fare, devono acquisire nuovi mezzi di produzione presso altre imprese e nuova forza lavoro. I nuovi assunti avranno a disposizione nuovo reddito, che spenderanno totalmente o in massima parte. Anche le imprese che forniscono mezzi di produzione, per far fronte questa ulteriore nuova domanda dovranno sia assumere nuovi lavoratori sia acquisire nuovi mezzi di produzione, attivando così a loro volta una domanda aggiuntiva di beni di consumo e di mezzi di produzione nei confronti di altre imprese e così via.
Il processo descritto può essere formalizzato a partire dalla relazione fra risparmio e reddito. Per Keynes i risparmi non sono determinati dal tasso di interesse, come sostenevano i marginalisti, ma dal livello del reddito. Il reddito è consumato o risparmiato. Se chiamiamo c la propen- sione al consumo, cioè la quota di reddito che viene consumata e s=1-c la propensione al risparmio, allora il risparmio aggregato è dato da sY, ove Y è il reddito aggregato. Denominando I gli investimenti, l’equilibrio macroeconomico è dato da sY=I, e quindi Y=I/s. Poiché s è minore di uno, ciò significa che il reddito è un multiplo dell’investimento stesso.
Esemplificando, se per ipotesi c è uguale a 0,8, cioè se l’80% dei redditi viene consumato, e quindi s è uguale a 0,2, allora un investimento aggiuntivo ΔI comporterà un aumento della domanda pari a ΔY=ΔI/0,2, cioè quintuplo.
Dati un investimento aggiuntivo e la propensione al risparmio, si raggiunge l’uguaglianza S=I attraverso l’aumento del reddito indotto da tale investimento grazie al moltiplicatore. Tale aumento, infatti, determina a sua volta un accrescimento dei risparmi, che abbiamo visto essere proporzionali al reddito stesso. Gli economisti ortodossi avevano sostenuto che i risparmi, fornendo le risorse necessarie, determinano gli investimenti e ciò è vero se c’è piena occupazione. Quando invece vi sono risorse produttive inutilizzate, è vero il contrario; sono gli investimenti che, attraverso un aumento della domanda e quindi del reddito, determinano i risparmi, come aveva già sostenuto Kalecki. A livello sistemico gli investimenti sono finanziati dall’aumento del reddito nazionale da essi stessi indotto. Inoltre, essendo l’incremento del reddito inversamente proporzionale alla propensione al risparmio, si evidenzia che quest’ultimo, sulla cui virtù per secoli si erano spezzate lance, non è sempre benefico ai fini del raggiungimento della piena occupazione.
Keynes è però anche consapevole che il livello auspicabile degli investimenti non sempre può avvenire attraverso le scelte razionali degli imprenditori. Essi, infatti, investono finché ne riscontrano la convenienza, cioè la possibilità di avere un ritorno accettabile in termini di profitti. Allo scopo di descrivere il comportamento dei capitalisti, Keynes introduce il concetto di efficienza marginale del capitale che, malgrado la denominazione fuorviante, non coincide con la produttività marginale dei neoclassici, ma rappresenta le aspettative di guadagno degli imprenditori, cioè il saggio di profitto che si aspettano di ottenere in termini monetari. Con le parole di Keynes si tratta del
«saggio atteso di rendimento in termini di moneta, se questa venisse investita in un dato capitale di nuova produzione, non dal risultato storico di ciò che un investimento ha reso rispetto al suo costo originario se si guarda indietro a ciò che ha fruttato quando la sua vita è giunta al termine»20.
Se queste aspettative di guadagno superano il costo del capitale, cioè il tasso di interesse corrente, che deve essere pagato per avere il capitale monetario in prestito o, nel caso che il capitale monetario sia disponibile, il tasso di interesse corrente che si può ottenere impiegandolo nella finanza, allora lo “spirito animale” dell’imprenditore decide di investire. In caso contrario se ne guarderà bene.
A sua volta, per Keynes, anche il tasso di interesse è giustificato non già dal sacrificio per l’“astinenza” dal consumo immediato, come sostenevano gli ortodossi, ma dalle aspettative degli agenti economici. A tal fine egli introduce la nozione di preferenza per la liquidità. Ciascun individuo, una volta deciso quanta parte del suo reddito consumare immediatamente e quanta invece destinare ai consumi futuri, dovrà decidere in quale forma detenere questi risparmi, se in forma liquida oppure impiegarli nel mercato finanziario. Il saggio di interesse, in questo contesto, non è quindi una ricompensa per il risparmio, potendo ciascun individuo detenere le somme risparmiate in denaro, bensì la ricompensa per la rinuncia alla liquidità per un periodo determinato, prestandola nel mercato finanziario21. È ovvio che in assenza di questa ricompensa è preferibile detenere il denaro in forma liquida, potendo così avere a disposizione immediata risorse per imprevisti e di evitare i rischi di un cattivo investimento.
Il desiderio di tenere moneta come riserva di ricchezza è quindi anche una misura del grado di sfiducia verso il debitore. Volendo fare un esempio di attualità, lo spread (il differenziale fra i tassi di interesse sul debito pubblico dei vari paesi) si spiega con il differente grado di fiducia verso gli stati indebitati. Se gli operatori economici sono convinti che il debito di uno Stato comporti il rischio di insolvenza, o comunque di provvedimenti svantaggiosi per i risparmiatori22, allora pretendono un tasso di interesse superiore per essere compensati di tale rischio. Pertanto l’interesse non è, come nei neoclassici, il prezzo di equilibrio fra domanda di investimenti e offerta di risparmi, bensì il prezzo che equilibra il desiderio di tenere la ricchezza in forma di denaro e la domanda di denaro per le transazioni commerciali o speculative, data la quantità di denaro disponibile.
Keynes si distacca dai neoclassici anche rispetto alla desiderabilità o meno di un elevato saggio di interesse. Per i neoclassici, poiché sono i risparmi che determinano gli investimenti, è auspicabile un adeguato saggio di interesse che invogli i risparmi. Per Keynes, poiché sono gli investimenti a determinare i risparmi, sono opportuni bassi tassi di interesse che invoglino gli investimenti. Fino a giungere all’auspicata “eutanasia del rentier” (la scomparsa di chi vive di rendita). Infatti, il tasso di interesse si spiega con la scarsezza di liquidità che rende necessario il ricorso al prestito, allo stesso modo in cui la rendita fondiaria si spiega con la scarsità della terra. Ma se la scarsità della terra è un fatto naturale, non lo è altrettanto la scarsità di liquidità e pertanto sono auspicabili politiche monetarie che rendano meno costoso l’accesso al credito.
Tuttavia, la politica monetaria espansiva tale da rendere più convenienti gli investimenti da sola può non essere sufficiente allo scopo. Keynes vede anche il rischio che la sola espansione della liquidità, senza riguardo all’economia reale, possa tradursi nella “trappola della liquidità”, cioè in comportamenti dei privati volti a detenere questo denaro senza grandi ritorni nell’economia reale. Per esempio, quando il tasso di interesse è sufficientemente basso e ci si aspetta che in futuro aumenti, chi acquistasse titoli oggi incapperebbe domani in perdite in conto capitale, dato che il valore dei titoli fruttiferi varia in relazione inversa al tasso di interesse. In tal caso il detentore di liquidità preferisce continuare a detenerla in tale forma e nel complesso gli agenti economici continueranno a assorbire moneta per quanta ne venga immessa.
Per il Marx degli abbozzi per il libro III del Capitale, anche i titoli del debito assorbono liquidità quando si riducono le opportunità di impiegare il denaro nel sistema produttivo. In tal caso si creano delle bolle finanziarie che ritardano la crisi ma la renderanno più violenta quando esploderà. Sia pure nel contesto dei manoscritti notoriamente ben lontani da un’opera compiuta, dedica quasi l’intera quinta sezione di quel libro23 al capitale finanziario, al capitale fittizio e alla tendenza alla finanziarizzazione dell’economia dovuta alla difficoltà di realizzare profitti nell'economia reale. In presenza di tali difficoltà la liquidità rimane intrappolata nella finanza, temporaneamente più redditizia e comunque più “liquida” o liquidabile rispetto agli investimenti produttivi, fino all’immancabile scoppio della bolla.
Né l’adeguamento dei salari può essere il meccanismo idoneo ad assicurare la piena occupazione nel mercato del lavoro. La domanda di forzalavoro non dipende solo dal suo prezzo (salario) ma anche dal livello dell’attività economica. Possono non essere sufficienti bassi salari a incrementare la produzione se il mercato non tira. Ovviamente tale domanda non è insensibile al costo della forza-lavoro ed è decrescente al crescere dei salari ma non in misura tale da garantire la piena occupazione attraverso una loro riduzione. Keynes inoltre afferma che una riduzione dei salari aumenterebbe l'occupazione se rimanessero ferme le altre circostanze. Si dà il caso, invece, che tale riduzione comporterà una diminuzione di capacità di spesa dei lavoratori e quindi della domanda. Se invece gli imprenditori si aspetteranno incrementi di utili grazie alla riduzione dei salari e quindi investiranno, compensando così la minore domanda per consumi, andranno incontro a una perdita se il rendimento degli investimenti non crescerà rispetto al saggio di interesse in modo da remunerarli. Molti autori keynesiani, inoltre, affermano che dal lato dell’offerta i salari monetari sono rigidi verso il basso in virtù dei contratti collettivi di lavoro, con i quali si negozia il salario monetario e non quello reale. Essa pertanto non risente, se non in ritardo, del fatto che una riduzione dei prezzi dovuta alla deflazione incrementi i salari reali e consenta quindi la loro diminuzione. L’andamento dell’offerta avrebbe pertanto un andamento piatto rispetto ai salari fintanto perdura la disoccupazione. Solo in prossimità del pieno impiego i salari cresceranno al crescere della domanda ma non si verifica l’opposto. Si ha un equilibrio di sottooccupazione, quindi, quando la curva della domanda incrocia quella dell’offerta nel tratto orizzontale di quest’ultima e la carenza di posti di lavoro sarà tanto più vasta quanto più il punto di incontro è distante dal punto che rappresenta la piena occupazione.
Quindi, qualora gli imprenditori non investano nella misura necessaria a evitare la disoccupazione, in particolare nei momenti di depressione in cui le prospettive di vendita del prodotto sono scarse, e gli automatismi del mercato non consentono di utilizzare appieno tutti i fattori produttivi, è opportuno che sia lo Stato ad abbinare alla politica monetaria espansiva la messa in campo di una domanda aggiuntiva. Infatti, anche un incremento della spesa pubblica, dovendo acquistare nel mercato le merci necessarie (nel caso di spesa per beni e servizi), o fornendo ad altri soggetti i mezzi necessari per il loro acquisto (nel caso di spesa per trasferimenti) fa aumentare la domanda aggregata producendo un risultato analogo a quello di un qualsiasi altro aumento della spesa, con un effetto minore nel caso dei trasferimenti (si veda più avanti), cioè determina un aumento indotto della domanda multiplo rispetto alla spesa iniziale. E anche questa spesa pubblica aggiuntiva tende ad autofinanziarsi in una misura che dipende oltre che dalla propensione al consumo, dalla quota di imposte che vengono prelevate sul maggior reddito indotto.
Viene così capovolta la anche la convinzione secondo cui gli investimenti pubblici sottraggono risorse a quelli privati e impediscono l’allocazione ottimale di tali risorse. In realtà, sempre in condizione di disoccupazione, gli investimenti pubblici, provocando – tramite il moltiplicatore – un aumento della domanda, determinano un aumento della produzione e l’impiego dei fattori sottoutilizzati (forza-lavoro e mezzi di produzione). Crescerà così il reddito disponibile, generando sia il maggior gettito fiscale per coprire l’aumento di spesa pubblica, sia il maggior risparmio necessario a finanziare i maggior investimenti privati occorrenti per supportare questa la crescita indotta. La riduzione dell’imposizione fiscale non è quindi una cosa provvidenziale. Perfino una spesa pubblica aggiuntiva interamente finanziata dal gettito fiscale attuale, attraverso una maggiorazione del prelievo fiscale, produce un beneficio netto, visto che quei redditi prelevati non sarebbero stati per intero spesi, ma in parte risparmiati24.
La riduzione di imposte, cavallo di battaglia delle destre, è una sciagura per i lavoratori, non solo per quanto sopra affermato, ma soprattutto perché tende a diminuire il ruolo dello Stato e della socialità in favore di quello del mercato, dove i più deboli regolarmente soccombono. La società che si realizzerebbe con queste politiche sarebbe meno solidale. Questo, ovviamente, se i soldi pubblici sono spesi per sviluppare questa socialità, il che purtroppo non è sempre vero.
Dato che il moltiplicatore è tanto maggiore quanto più alta è la propensione al consumo, una spesa pubblica in servizi sociali o in investimenti utili, poniamo di 100, e una propensione al consumo che supponiamo ancora di 0,8, produce un aumento complessivo del reddito nazionale di 500 (moltiplicatore=1/0,2). Se invece si spende la medesima cifra di 100 in trasferimenti, dato che la propensione ai consumi è di 0,8, si avrà in prima battuta una spesa da parte dei beneficiari di 80 e indirettamente, tramite moltiplicatore, giungeremo a incrementare il reddito di 80/0,2, cioè di 40025. Sensibilmente meno, quindi, di quello che si otterrebbe con una spesa diretta da parte dello Stato in beni e servizi. Analogamente l’aumento del deficit tramite una riduzione delle imposte accresce la disponibilità di reddito dei contribuenti che non sarà interamente spesa. Pertanto, sotto questo profilo sono criticabili i vari bonus che si traducono in spesa solo in misura parziale. Tanto più che i beneficiari, sono quasi sempre soggetti dotati di un certo livello di reddito, che possono per esempio ristrutturare la casa di proprietà, acquistare beni superflui non di prima necessità ecc. e che hanno una maggiore propensione al risparmio. Spesso questi bonus si traducono in modifiche del paniere di spesa dei beneficiari ma solo in misura limitata in una maggiore spesa26. Inoltre, i bonus si pongono in concorrenza con altri interventi sociali di grande importanza come l’istruzione, la sanità ecc.
Tornando a Keynes, un’altra sua intuizione è stata la difficoltà di misurare il capitale. Criticando la costruzione neoclassica osservò che esso non è composto da un singolo bene, ma da un insieme di beni. Visto che non si possono sommare le mele con le pere, per misurare il capitale bisogna ricorrere alla somma del valore delle sue componenti. Questo presuppone che se ne conoscano i prezzi, che invece, secondo i neoclassici, sono determinati dalle produttività marginali del capitale. Ma come si può parlare di produttività marginale in assenza di un criterio rigoroso di misurazione del capitale stesso? Vedremo che Sraffa riprende e sviluppa in termini formali questa intuizione.
4. L’impatto sulle politiche economiche
Qual è stato l’impatto della teoria keynesiana sulle politiche economiche? La terribile crisi iniziata nel 1929 indusse, dopo un po’ di esitazioni, sia gli USA sia la Germania di Hitler a percorrere la strada della spesa pubblica espansiva. Non si trattò di misure necessariamente favorevoli alla classe lavoratrice. La stessa guerra, con la distruzione dei capitali superflui e con le spese per gli armamenti, si può considerare come una politica di risposta alla crisi. Però, in un modo o nell’altro, con la guerra o (in misura minore) con la promozione del Welfare State, per un po’ di anni queste politiche hanno convissuto dialetticamente con le spinte al rigore dei conti pubblici. E nei casi più virtuosi hanno migliorato le condizioni di vita delle classi svantaggiate e consentito, allontanando lo spauracchio della disoccupazione, di accrescere il potere contrattuale dei lavoratori. Quest’ultima funzione, per la verità, ha caratterizzato un periodo ben circoscritto della storia del capitalismo. A grandi linee dalla ricostruzione post bellica degli anni 40 del ‘900 fino agli anni 70, dopodiché sono tornate in auge le politiche neoliberiste. Si può parlare quindi di una parentesi eccezionale che è stata fortemente favorita dalla necessità di confrontarsi con il campo socialista anche sul terreno dei diritti sociali e che non a caso si è chiusa con la crisi prima e la scomparsa poi di tale campo.
L’abbandono delle politiche keynesiane è considerato da molti economisti come un errore sul piano scientifico e sono stati scritti numerosi saggi per motivarlo e convincere gli stati che sarebbe necessario un ritorno a queste politiche. L'opinione di chi scrive è che invece vi sono elementi oggettivi che sono alla base di queste scelte, fatte – è vero – non nell’interesse della collettività, ma nell’interesse del capitale e nella convinzione, questa sì erronea, che vi fosse una coincidenza fra le due cose, o, più probabilmente, nell’intento di fornire giustificazione apparentemente scientifica a una scelta tutta politica.
Per capire i limiti delle politiche espansive, il vecchio Marx e la sua legge della caduta tendenziale del saggio del profitto ci sono di aiuto. Osservava il Moro che con il progredire dell’accumulazione e l’introduzione di tecnologie che risparmiano lavoro, si determina una tendenza alla riduzione del saggio medio del profitto fino al punto in cui i capitalisti decidono di interrompere i processi di investimento e con ciò fanno funzionare al contrario la spirale del moltiplicatore: meno investimenti → meno redditi e meno occupazione → meno domanda → meno investimenti e così via.
Occorre considerare inoltre che le politiche espansive nel breve periodo funzionano se, che accanto a un livello di disoccupazione di forzalavoro esiste un livello di sottoutilizzazione degli impianti. Nel caso contrario non sarebbe possibile espandere la produzione e quindi la domanda aggiuntiva rimarrebbe inevasa. Occorrerebbe quindi che gli impianti fossero dimensionati al fine di assicurare, domanda permettendo, la piena occupazione mentre nella realtà sono dimensionati in funzione dell’espulsione di forza-lavoro e della sua sostituzione con macchine. Quindi, la piena occupazione è una chimera se non viene conquistata con dure lotte, perché non è desiderata dai capitalisti in quanto comporta l’aumento del potere contrattuale dei lavoratori. Il capitale ha sempre bisogno di un opportuno esercito industriale di riserva e l’ingente sviluppo tecnologico ha consentito di ampliare questo esercito (fatto anche di precari, migranti, falsi autonomi ecc.).
Michał Kalecki pur ammettendo la possibilità di ottenere il pieno impiego, avverte che le politiche a ciò indirizzate incontreranno forti opposizioni di carattere politico. Infatti, se il pieno impiego è conseguito con un'azione autonoma dello Stato, si riduce il potere dei capitalisti di condizionare le scelte governative attraverso il “mercato”. Il pieno impiego determina inoltre un accresciuto potere dei lavoratori, che potrebbero non temere la misura disciplinare del licenziamenti. Per questo i capitalisti spingono per la disciplina nelle fabbriche e premono sul potere politico per evitare queste situazioni. «Il loro istinto di classe dice loro che un durevole pieno impiego non è dal loro punto di vista sano e che la disoccupazione fa parte integrante del normale sistema capitalista». Ciò lo conduce a prevedere il “regime economico futuro delle democrazie capitaliste”, cioè, “una restaurazione artificiale della condizione esistente nel capitalismo dell’Ottocento”. Nella sostanza la svolta neoliberista che si è verificata negli anni successivi27.
A ciò si aggiunga che le politiche espansive, attivando spese improduttive dal punto di vista capitalistico e favorendo, attraverso la piena occupazione, la conflittualità dei lavoratori, riducono i margini di profitto mentre al contrario tali margini vengono restaurati attraverso le politiche di “austerità” che diminuiscono il salario indiretto (servizi pubblici) e differito (pensioni), espandono gli spazi del mercato, che si sostituisce al pubblico e, attraverso la disoccupazione, riducono il potere contrattuale dei lavoratori e con ciò anche il salario diretto. Aveva ragione quindi Kaleki a sostenere l'incompatibilità fra piena occupazione e interessi della classe capitalistica. Il capitalismo è paragonabile a un vascello che deve attraversare uno stretto fra due scogli: la recessione da domanda e la caduta del saggio del profitto. Se vengono adottate misure per allontanarlo da uno scoglio lo si avvicina all’altro. Altrimenti le ricette dei keynesiani ci avrebbero messo al sicuro da ogni crisi e nessuno avrebbe motivo di respingerle. Ci sarebbe poi un terzo scoglio rappresentato dallo sfruttamento insostenibile della natura e dell’ambiente, ma questo tema non può essere trattato in questa sede.
Bisogna dare atto, tuttavia, della cartuccia in più rispetto a Marx che l’economista di Cambridge ha nella sua arma: il ruolo della politica economica e monetaria statale, che difficilmente avrebbe potuto essere messo a fuoco nel XIX secolo e che in parte riflette l’intreccio tra Stato ed economia tipico della fase monopolistica e imperialistica del capitalismo.
5. Le prospettive delle future generazioni
Nei testi sacri di macroeconomia, il capitolo Keynes finisce qui, salvo modellizzare in maniera esasperata – cioè rappresentare con formule matematiche e grafici più o meno elaborati28 – non il suo pensiero ma una sua veste estremamente semplificata e contraddittoria. In realtà l’economista inglese va oltre, immaginando le prospettive del capitalismo dopo che si sia affermato un incremento ancora più vigoroso della produttività e che il lavoro necessario alla riproduzione umana si riduca drasticamente.
A proposito del rentier, aderendo all’idea marginalista che che la scarsità sia la determinante della remunerazione dei fattori, osserva:
«[Una bassa remunerazione del capitale] significherebbe tuttavia l’eutanasia del redditiero e di conseguenza l’eutanasia del potere oppressivo e cumulativo del capitalista di sfruttare il valore di scarsità del capitale […]. Il possessore del capitale può ottenere l’interesse perché il capitale è scarso. [...Ma] non vi sono ragioni intrinseche della scarsità del capitale. […] Considero perciò l’aspetto del capitalismo caratterizzato dall’esistenza del redditiero come una fase di transizione, destinata a scomparire quando esso avrà compiuto la sua opera. E con la scomparsa del redditiero, molte altre cose del capitalismo subiranno un mutamento radicale»29.
Fra tali mutamenti include
«un aumento del volume di capitale finché questo non sia più scarso [...], un sistema di imposizione diretta tale da consentire che l’intelligenza e la determinazione e la capacità direttiva del finanziere, dell’imprenditore [...] siano imbrigliate al servizio della collettività, a condizioni ragionevoli di compenso»30.
In un suo discorso tenuto alla fine degli anni Venti31 sostiene che continuando le tendenze progressive di lungo periodo del capitalismo, nell’arco di un secolo sia possibile liberarci dalla penuria. Lo sviluppo tecnologico richiederà però meno forza lavoro, con conseguente disoccupazione. Per Keynes non si tratta di un male, ma del risultato di un progresso con cui occorre misurarci, evitando le guerre, controllando l’andamento demografico, garantendo un tasso di accumulazione adeguato, e riducendo l’orario di lavoro. In sostanza, sia pure non schierandosi nella lotta di classe e fornendo una rappresentazione edulcorata del capitalismo, questo suo contributo ricorda alcune intuizioni presenti nel noto Frammento sulle macchine32 di Marx e fa suoi alcuni obiettivi della classe lavoratrice, quali la riduzione dell’orario di lavoro. La differenza è che Marx individua nel contrasto tra la diminuzione del lavoro necessario e il bisogno del capitale di succhiare lavoro vivo, una contraddizione fondamentale del capitale. Quindi queste sorprendenti prospettive saranno possibili solo con il superamento del capitalismo.
6. Il rapporto fra le teoria Marx e Keynes in pochi punti
Ovviamente Keynes non ha potuto leggere quegli scritti marxiani rimasti inediti fino a dopo la pubblicazione della sua Teoria Generale. E probabilmente – a ragione dei suoi pregiudizi antimarxiani e dovendo doverosamente escludere la malafede – non aveva letto attentamente nemmeno Il Capitale, visto che egli non si è mai affermato in debito verso Marx. Nonostante ciò, molte delle sue idee sono chiaramente sovrapponibili a importanti intuizioni del più grande teorico del comunismo.
Le abbiamo segnalate nel corso della trattazione e le riepiloghiamo.
1. La critica alla legge di Say in quanto applicabile alle sole economie di baratto è identica a quella formulata molto tempo prima da Marx.
2. L’idea della crisi da deficit di domanda risale addirittura, oltre che a Marx, ai sottoconsumisti a quest'ultimo anteriori. La stessa carenza di domanda per investimenti è pienamente contenuta nella teoria marxiana.
3. Per entrambi il tasso di interesse deve essere confrontato con il rendimento del capitale. Per Marx esso oscilla fra un massimo pari al saggio del profitto a cui tende in periodi di boom e zero a cui tende nei periodi di depressione, in quanto l’interesse non è che una quota del plusvalore di cui si appropria il capitale finanziario.
4. Keynes, come Marx, considera la moneta non solo il medium degli scambi ma ne considera diverse funzioni: mezzo di pagamento, riserva di valore, ecc. Inoltre, sia per Marx che per il Keynes del Trattato, la moneta è endogena, ossia trainata dalla domanda delle imprese, non fissata esogenamente dalla banca centrale, anche se nella Teoria Generale Keynes ricorre a questa ipotesi di comodo.
5. Entrambi sono critici verso la teoria quantitativa della moneta. Infatti, affinché le variazioni della quantità di moneta determinino solo variazioni del livello dei prezzi occorrerebbero alcune condizioni aggiuntive che solo in casi eccezionali potrebbero verificarsi, visto il carattere endogeno della moneta che dipende dai prezzi e non viceversa.
6. L’idea del moltiplicatore, almeno in stato embrionale era già presente in Marx.
7. Idem per la trappola della liquidità. Anche per Marx, quando la redditività è bassa il denaro viene accumulato o impiegato in attività finanziarie piuttosto che investito in attività produttive.
8. Il procedimento usato nel Trattato sulla moneta di suddividere il sistema economico nel settore che produce mezzi di produzione e quello che produce mezzi di consumo, per rilevare una possibilità di squilibrio fra i due settori è paragonabile a quello utilizzato nei marxiani schemi di riproduzione.
9. Le prospettive economiche a lungo termine per entrambi includono la riduzione del peso del lavoro nella produzione e riproduzione umana.
10. Anche sul metodo vi sono somiglianze. Certamente Keynes non fa uso della dialettica, ma il suo metodo ha due aspetti in comune con quello marxiano, quello di abbandonare l'individualismo metodologico tipico dei neoclassici per considerare il diverso comportamento delle classi sociali e quello della graduazione dei livelli di astrazione. Sappiamo che Marx prima analizza la merce, “cellula elementare” del modo di produzione capitalistico per passare successivamente alla sua circolazione, al denaro, al capitale in generale, alla sua circolazione e riproduzione, alla concorrenza, introducendo progressivamente elementi di complicazione che avvicinano i risultati alla “percezione fenomenica” degli operatori33. Keynes isola inizialmente alcuni elementi che ritiene abbiano un’influenza prevalente su determinati fenomeni per prendere in esame successivamente altri fattori presenti nella complessità del sistema economico.
In un’intervista di Lucio Gobbi dell’ottobre 2018 a Marco Veronese Passarella34, l’intervistato, dà atto del ruolo anticipatore di Michal Kalecki rispetto alle politiche keynesiane e nello stesso tempo della sua idea sull’incompatibilità sul piano politico degli indirizzi espansivi della domanda con la pulsione del capitale di tenere a freno le rivendicazioni dei lavoratori. Non è possibile dissentire da tale idea e il presente lavoro ha cercato di avvalorarla. Interessante è la notazione, sempre contenuta nell’intervista, sull’influsso di Marx su Kalecki, tramite la Luxemburg. Sarebbe utile verificare, ma non ne abbiamo gli strumenti, se la lettura keynesiana di Kalecki sia stata in modo indiretto determinante nell’inconscia assunzione di elementi fondamentali della teoria marxiana da parte del barone di Tilton. Passarella comunque coglie a ragione la presenza di altri importanti elementi in comune fra Keynes e il vituperato Marx: oltre alla teoria endogena della moneta, il saggio di interesse come “una variabile monetaria slegata dalla dinamica del mercato dei risparmi”, l’instabilità e la crisi come regola e non eccezione del sistema capitalistico, la “scienza economica come analisi degli aggregati sociali e delle loro tendenze o leggi di movimento”.
Viene da domandarsi quindi se in assenza della teoria marxiana, anche se assimilata attraverso Kalecki, Keynes avrebbe potuto giungere ai risultati che lo hanno reso una pietra miliare del pensiero economico. Volendo fornire un ulteriore elemento in suo favore, si dà atto che nelle bozze preparatorie della sua Teoria generale c'è un commento assai simpatetico della marxiana metamorfosi del capitale (D-M-D'), che tuttavia scompare nel libro a stampa.
7. Conclusioni
La crisi del Welfare State è una manifestazione dei limiti delle politiche keynesiane dal punto di vista capitalistico. Le politiche neoliberiste, da tale punto di vista, sono una necessità. La tendenza alla caduta del saggio del profitto viene contrastata da tali politiche. Il debito pubblico crescente riflette sia l’impegno finanziario dello Stato per arginare tale caduta, per esempio riducendo le imposte sui profitti o distribuendo incentivi, sia, nel caso di opposte politiche, l’insostenibilità dello stimolo della domanda oltre certi limiti. Il debito, inoltre, cresce con il progredire della crisi che fa diminuire le entrate fiscali e con il mantenimento di un tasso di interesse elevato che porta a far crescere il debito più del Pil e quindi anche il rapporto debito/pil. Infine, il debito pubblico è stato alimentato per soccorrere quello privato, come prescritto da Draghi in epoca Covid. Non è quindi eccessivo sostenere che il debito pubblico, di per sé non un male, quando risulti fuori controllo sia una manifestazione fenomenica delle contraddizioni del modo di produzione capitalistico i cui effetti vengono scaricati sui beni pubblici in senso lato.
Veniamo all’affermazione del Keynes del Trattato sulla moneta in cui emenda parzialmente il paradosso di Walras (e di Schumpeter) secondo cui in un equilibrio di lungo periodo non ci sono profitti, sostenendo invece che gli imprenditori possono avere un profitto purché «il valore monetario degli investimenti [... sia] superiore al risparmio»35. Qui l’effetto dell’accumulazione di capitale sul saggio del profitto di lungo periodo viene ancora ignorato, a dimostrazione del carattere monco di questa teoria, per quanto fertile e originale sotto altri punti di vista. Non viene dato neppure sufficiente rilievo all’intuizione kaleckiana di una correlazione negativa, sia pure per motivi diversi da quelli esposti da Marx, fra profitti e stock di capitale. Il famosissimo economista inglese ha il merito di avere previsto alcuni esiti dell’aumento della produttività. Tuttavia, mancandogli una teoria del valore non ha realizzato che questa immensa espansione della ricchezza in termini di valori d’uso è cosa diversa dall’aumento del valore e può con esso urtare. Non ha visto che la situazione ideale in cui si può lavorare di meno, in cui c’è un rilievo decrescente del lavoro nella produzione dei valori d’uso, comporta la riduzione, almeno in termini relativi, rispetto al capitale accumulato, del neovalore. È sì un esito fausto, incompatibile però con il modo di produzione capitalistico che vede nel saggio del profitto la stella polare che lo guida. Pertanto, un secolo dopo, questo esito ottimistico è ben lontano dal realizzarsi, mentre i grandi poteri economici vanno proponendo politiche opposte a quelle keynesiane e oggi l'orrore della guerra, mai estromesso dalla storia, si fa ancora più minaccioso.
Contrariamente alle aspettative di Keynes, la storia sta dimostrando che, mentre si stanno concretizzando le potenzialità per l’esito ottimistico da lui prospettato (e con diversi accenti prospettato da Marx), lo sfruttamento si va facendo, al contrario, sempre più intenso e violento. E così sarà finché la molla che aziona l’economia rimarrà l’accumulazione di denaro fine a sé stessa e non la consapevole organizzazione della produzione da parte dei produttori associati.
Rivendicare politiche riformistiche non è un peccato. Esse, attraverso la tendenziale piena occupazione e maggiori tutele possono rendere i rapporti di forza più favorevoli ai lavoratori. Ma sarebbe illusorio pensare che ciò sia sufficiente, perché il capitale cercherà di farle regredire in ragione della loro incompatibilità con il pieno dominio capitalistico. Oggi come in passato, tali rivendicazioni dovrebbero invece accompagnarsi alla presa di coscienza dei loro limiti e a una prassi indirizzata al rivolgimento dei rapporti sociali.
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