Dalla scomparsa di Valentino Parlato sono trascorsi tre anni, ma sembra un tempo infinito. E si può capire quanto pesi la sua assenza, quanto manchi al nostro collettivo, e a tutta la sinistra, il suo contributo, quanto manchi il politico eretico, il brillante giornalista, l’intellettuale di rango.
Del resto basta leggere questa sua intervista a Federico Caffè per avere la netta impressione di essere di fronte a quei pensieri lunghi capaci di scavallare il secolo per parlarci dell’oggi.
Ci sarà un nuovo 1929? Una domanda sulle grandi crisi del capitalismo sulla quale ragionano Valentino e Caffè. E da questa intervista, dal suo nitore, dalla capacità di sollecitare Caffè con domande brevi (come non si usa più, purtroppo), si può capire molto dell’attualità della crisi mondiale che oggi è cronaca e domani sarà storia. (n.r.)
Ecco l’intervista pubblicata su il manifesto del 14 novembre 1979.
La domanda è molto banale, nel senso che è un po’ nell’animo di tutti. E’ la domanda del cinquantenario della grande crisi: Ci sarà o no un nuovo 1929?
Mi rendo conto che il 1929, per i suoi aspetti vistosi e anche folcloristici, eserciti grandi suggestioni: il crollo di borsa, la gente che si buttava di sotto dalle finestre dei grattacieli. Galbraith ha dimostrato poi che quasi nessuno si era buttato giù dai grattacieli, ma è vero che dopo il ’29 i vetri dei grattacieli sono fissi. Ma è ancora più vero che i capitalisti vittime del crollo di borsa, in un modo o nell’altro, se la sono cavata, mentre a star male, sul serio, e a lungo, sono state ìe masse rurali e i lavoratori.
Sul ’29 quindi molta esagerazione, oggi anche di tipo celebrativo?
Ripeto: gli aspetti vistosi dei ’29 spiegano molte enfasi degli attuali interrogativi, ma quel che veramente mi sorprende, mi appare ingenuo nella domanda «ci sarà un nuovo 1929?» è che nel ’29 ci siamo già, ci viviamo dentro. Tutti gli aspetti patologici del ’29 fanno parte della nostra esperienza: non nelle forme catastrofiche di allora, ma In modo endemico, nella forma di un ristagno acquisito nella nostra coscienza, al punto che neppure ce ne accorgiamo.
Questa non è un’esagerazione di riduttivismo?
No. Guardiamo ai fatti. La disoccupazione per esempio. L’Ocse per il 1980 prevede 18 milioni di disoccupati nei paesi industrializzati: questo è 1929. E senza parlare della situazione negli altri paesi: uno studio della Banca mondiale, sullo sviluppo nel mondo nel 1979, valuta che vi siano tra i 600 e i 700 milioni di uomini che vivono in condizione di «assoluta povertà». «Assoluta povertà», secondo la definizione della stessa banca, significa uno stato di pauperismo nel quale gli individui nascono già tarati per condizioni di deperimento e sottoalimentazione dei genitori. Questa povertà diffusa fa perfettamente riscontro con le condizioni di grande povertà esistenti allora negli Usa.
Questa diffusa ed enorme povertà dei paesi non industrializzati forse nel ’29 non c’era o era minore, ma certamente non era «emergente», non assumeva la rilevanza che ha oggi.
Il ’29 è fra noi, non c’è bisogno di aspettarselo. Faccio altri due esempi: la distribuzione dei prodotti agricoli e l’andamento delle borse. Tutti ricordiamo i romanzi americani (Furore per esempio) con violente e drammatiche descrizioni di distruzione di prodotti agricoli, la sepoltura dei maiali nella calce per esempio. Ma tutto questo non è forse la normale politica agraria della Cee (la vecchia Ue, ndr)? Solo che ci siamo abituati, non ci sorprendiamo. Io però rimango ancora esterrefatto quando sento un ministro dell’agricoltura dichiararsi soddisfatto perché quest’anno la quota di frutta distrutta è un po’ minore di quella dell’anno precedente. Questa è la normalità mondiale, proprio quando in tutti i parlamenti si parla tanto di fame nel mondo. Ma consideri anche il tanto esaltato crollo di borsa. Forse che i giornali di questi ultimi anni non ci informano di continui crolli con conseguenti distruzioni di risparmi?
Un febbrone può essere meno dannoso di una febbre bassa e duratura?
Esattamente, ed è questo che mi induce a ribadire che viviamo un 1929 allo stato endemico.
Ma tutti siamo più assuefatti?
L’adattamento, l’assuefazione sono propri del comportamento umano. Anche le imprese spaziali non ci impressionano più. Però, dal punto di vista complessivo, adattamento e assuefazione significano deterioramento: abbiamo perduto anche quegli anticorpi, quelle capacità reattive che ci aiutavano ad affrontare la malattia.
Come non ricordare che già nel 1936 D. H. Robertson ci ammoniva a considerare che «nascosto tra le spire del serpente ciclico» poteva esserci «un nemico ancora più insidioso», «una specie di verme penetrato al centro delle basi istituzionali e psicologiche della nostra società e che ingrassa su quello stesso accrescimento della ricchezza, che essa cerca inutilmente di impedire»?
Ma adattarsi – nel caso nostro – ha significato anche attrezzarsi. Darsi quelle istituzioni finanziarie, quei meccanismi compensativi, insomma quel che — schematicamente — definiamo l’«apparato keynesiano» (anche se poi un economista come Minski ci ha spiegato che di keynesismo se n’è fatto ben poco).
Sì, con il keynesismo applicato bisogna andarci cauti. In rapporto al 1929 le soluzioni tentate non furono propriamente di tipo keynesiano o direttamente derivate dalla «Teoria generale». Gli interventi di allora furono abbastanza improvvisati, decisi e definiti sotto l’urgenza della crisi e della miseria. La più recente letteratura economica e storica è tornata con molto impegno sul New Deal e mi pare convincente la tesi di uno storico che distingue tre momenti nel New Deal:
- un primo momento di amministrazione dell’economia, quello dei «codici» di comportamento e di controllo della borsa;
- un secondo momento di economia di welfare, cioè di intervento assistenziale di fronte alla miseria;
- solo il terzo momento comincia a essere keynesiano, nel senso che ci si propone e si definisce una manovra della domanda.
Ma questo ritorno al messaggio di Keynes e questo riesame della grande crisi ci aiutano a qualcosa?
Certo e vorrei considerare, separatamente, in che misura questi studi ci hanno aiutato a capire quel che è accaduto e accade e in che misura ci aiutano — o ci possono aiutare — a fronteggiare la situazione presente. Vorrei cioè considerare lo «stato dell’arte» (ed evidentemente parlo dell’economia politica) e le scelte terapeutiche, più specificamente il rischio di assumere l’inflazione come nemico unico e principale.
Cominciamo allora dallo «stato dell’arte».
Sì, Gli studi più recenti, penso a Kindleberger e al suo volume Manias, Panics and Crashes, sostengono che è del tutto infondata la tesi dei monetaristi secondo i quali la crisi fu dovuta a un errore, a una cattiva manovra del credito, cioè — nel caso specifico — a una politica del credito non sufficientemente espansiva da parte della Riserva federale. Kindleberger ci riporta alla produzione, alle forze endogene e dimostra che la flessione produttiva anticipò e non seguì la mancata espansione del credito, e lo stesso crollo della borsa valori.
I dati sono interessanti e persuasivi: nel 1929, negli Usa, l’indice della produzione industriale passa da 127 in giugno a 122 in settembre, a 117 in ottobre, 106 in novembre e addirittura 99 in dicembre, mentre il famoso giovedì nero viene alla fine di ottobre, il 27 ottobre. Così anche la produzione di automobili anticipa il grande crollo: il numero degli autoveicoli prodotti in ciascun mese, tra il marzo e l’agosto del 1929 crolla da 660.000 a 440.000 per precipitare poi a 416.000 in settembre, 319.000 in ottobre, 170.000 in novembre e 92.000 in dicembre. Una caduta così rapida della produzione non può dipendere da un mancato allargamento del credito, che agisce più lentamente e che, in ogni caso, si è avuto dopo il crollo.
Per tornare al nostro assunto, ciò conferma che i meccanismi della crisi del ’29 sono endogeni, attengono alla produzione, e non derivano da errori di politica creditizia e monetaria. E’ l’aspetto ciclico dell’economia capitalistica che si riconferma.
Certo, il discorso torna alla produzione e anche a un elemento psicologico del ciclo, una sfiducia nelle prospettive di profitto che rallenta la produzione. A parlare di elementi psicologici non c’è niente di male, vorrei sottolinearlo. Del resto l’azione demiurgica di Roosevelt si valse di molti elementi psicologici.
Ma in che modo questo intervento demiurgico di Roosevelt si connette a Keynes?
Roosevelt, come ho già detto, agì sotto le pressioni dell’emergenza e vorrei aggiungere che allora gli economisti di Chicago — l’attuale roccaforte dei monetaristi — furono quelli che più premettero sul governo perché intervenisse a sostegno del ciclo. Ma a proposito di questi interventi bisogna fare attenzione: prima di Keynes la ragione degli interventi statali era quella di rimettere in circolo capitali «tesoreggiati», immobili. La finalità era quella di «detesoreggiare», di evitare che si creassero paludi di capitale stagnante. Con Keynes abbiamo capito che l’inutilizzazione delie risorse non comporta immobilizzazione conservativa nel tesoreggiamento, ma perdita insanabile di reddito, tale che poi anche il risparmio tesoreggiato non si trova più.
Si arriva così alla manovra della domanda o al terzo momento del New Deal?
Le acquisizioni sono due:
- che in fase di rallentamento o recessione del ciclo non c’è inutilizzazione di capitali tesoreggiati, o, come diceva Robertson «risparmio abortivo», perdita cioè di potenzialità, bensì secca e ir- reparabile perdita di reddito;
- la necessità di una politica di controllo della domanda, che può svilupparsi in due versi:
a) controllo e intervento per stimolare l’iniziativa privata, dal momento che Keynes non era affatto un socialista;
b) solo come estremo rimedio Keynes parlava di socializzazione degli investimenti, cioè di intervento pubblico diretto.
Quest’ultimo non è un aspetto caratterizzante di Keynes; ciò che va sottolineato è che o attraverso interventi stimolatori o attraverso interventi sostitutivi l’obiettivo costante era quello di manovrare la domanda verso la realizzazione del pieno impiego. E qui c’è l’attuale fraintendimento del contenuto della parola d’ordine keynesiana di controllo della domanda.
Cioè?
Per Keynes il controllo della domanda si collocava nell’ottica del pieno impiego, oggi il controllo della domanda si colloca nell’ottica di frenare l’inflazione.
Saremmo cosi passati da una versione attiva a una versione passiva, del famoso «controllo della domanda»?
Nell’attuale situazione di coesistenza di inflazione e disoccupazione la parola d’ordine del controllo della domanda viene assunta in senso unilateralmente antinflazionistico, limitante della domanda.
Ma il controllo della domanda serviva per uscire dalla recessione?
Sì, ma in questo momento — di coesistenza di inflazione e stagnazione, stagflation si diceva — il controllo della domanda è tutto polarizzato sul controllo dell’inflazione, assunto come pericolo principale.
Intende dire che questo «controllo della domanda» sta diventando nocivo?
Siamo a un’interpretazione del keynesismo in termini di medicina militare; per qualsiasi malattia si dà l’olio di ricino, così per qualsiasi malessere dell’economia si da una botta, un freno alla domanda. Qui usciamo dalle considerazioni sullo «stato dell’arte» per passare al problema di come fronteggiare l’attuale crisi.
Per fronteggiare la situazione e superare questa fase di imbarbarimento dell’interpretazione del messaggio keynesiano — che, personalmente ancora mi convince —credo sia utile fare due richiami: iInnanzitutto raccomandare agli economisti che gravitano —come si usa dire —nell’area di sinistra ad aggiornare le loro letture o, per esempio, leggersi un economista liberai come Tobin, il quale contrariamente all’opinione prevalente ha avuto il coraggio intellettuale di affermare che si esagera nell’indicare l’inflazione come il male principale della società.
Forse questa affermazione è costata a Tobin il premio Nobel al quale era stato designato, ma almeno è stata utile a ricordarci che ci sono mali peggiori dell’inflazione. Tutti ripetono che l’inflazione distrugge la ricchezza dei ceti meno abbienti, ma non ricordano che i ceti meno abbienti più che di difendere la propria ricchezza (che non hanno) hanno necessità di difendere il proprio lavoro.
Anche sull’inflazione c’è un fraintendimento. Quando si parla della famosa inflazione nella Germania del primo dopoguerra, in effetti siamo fuori dell’inflazione.
In Germania non era più inflazione, era il crollo. Israele quest’anno ha un’inflazione del 100 per cento, eppure la sua economia non va tanto male. Bresciano-Turroni — che viene ricordato ancora per il suo scritto sull’inflazione in Germania — dichiarava esplicitamente di non comprendere l’America latina e tutte le moderne inflazioni in senso proprio. Queste considerazioni dovrebbero valere – oggi e in concreto – per quegli economisti e scrittori di economia, i quali quando si trovano di fronte a un ministro non timido e che sulla base dell’attuale livello delle riserve valutarie tenta una politica economica un po’ più attiva, subito lo accusano dì essere «inflazionista». Come non ricordare a questi scrittori la frase di Keynes, «Le persone timide in posizione di responsabilità sono un passivo per la nazione»? Se si trova un «non timido», evitiamo di bloccarlo.
Allora che fare con Keynes, per un verso superato e per l’altro malinterpretato, anzi stravolto?
Keynes non è affatto superato. Casomai si tratta di adattare ai tempi il suo insegnamento: passare cioè dal controllo della domanda al controllo dell’offerta. A differenza dei tempi di Keynes, oggi ci troviamo di fronte a emergenti problemi di scarsità. Non solo di energia, ma anche — per esempio — di manodopera qualificata: un fenomeno che si registra in Italia, ma anche negli Usa e nei paesi della Cee. Queste carenze di offerta non derivano nel loro complesso da cause naturali, non sono la vecchia «scarsità», ma sono un prodotto del modo di essere della società contemporanea, derivano dall’azione o inazione dei governi, dai rinvii, dalle segmentazioni di responsabilità, dalla mancanza di programmi. E’ anche la considerazione di queste scarsità che induce a ritenere che sia possibile un adattamento ai tempi dell’insegnamento keynesiano, che sia possibile passare dal controllo della domanda a quello dell’offerta. Questo però è un keynesismo da costruire.
Può fare una semplificazione di questo controllo dell’offerta?
Banalizzando all’estremo, si può dire che l’inflazione nasce da una situazione nella quale c’è troppa moneta e poche merci. Accrescere l’offerta di merci è antinflazionistico. Per esempio, in una situazione come quella italiana di oggi costruire case — anche in deficit di bilancio —sarebbe antinflazionistico. Il fatto è che definire e realizzare una politica dell’offerta chiede tempo, comporta un superamento dello schema keynesiano tradizionale (cioè del controllo della domanda complessiva) e sollecita il passaggio a controlli fisici diretti: i razionamenti, per esempio, quando da un dato settore nasce una spinta inflazionistica.
Ma contro l’inflazione conosciamo una sola cura?
Questo è l’errore. Di fronte all’inflazione oltre che la manovra dell’offerta —che, come ho detto, richiede tempi più lunghi — in alternativa alla cura del salasso (in effetti di strozzare l’economia) c’è anche la cura dei controlli fisici. La verità è che dal 1947 ad oggi l’unico rimedio che usiamo contro l’inflazione è la cura militare dell’olio di ricino. Non abbiamo mai saputo far altro, mai che ci sia stato almeno un pizzico di fantasia. E tutto questo senza dimenticare che c’è una scelta di sostanza, anche socialmente definita, tra abituarsi a vivere con l’inflazione e abituarsi a vivere con la disoccupazione.
Ma ci sono i sussidi, la cassa integrazione.
Tutto il contrario di quel che sosteneva Keynes, il quale — dando peso alla dignità dell’uomo —- si poneva l’obiettivo del pieno impiego e non quello — del tutto contrapposto —del sussidio generalizzato. Il modo corrente di fare la lotta all’inflazione è quanto di più antikeynesiano si potesse inventare: da una parte fa disoccupazione e dall’altra consolida gli aumenti di capitale che il rentier ha realizzato nella fase inflattiva.
E la questione dell’offerta? Quel che lei chiama strozzare l’economia, il colpo di freno, dovrebbe riflettersi — nelle intenzioni di chi opera la strozzatura — su tutti i prezzi e determinare in tal modo un aumento dell’offerta?
Si può dire che non siamo più in condizioni di offerta illimitata (anche di manodopera qualificata) e, più precisamente, che le correnti cure antinflazionistiche danno per scontata un’elasticità dell’offerta che non c’è.
Non pensa che dopo lo straordinario trentennio di sviluppo siamo arrivati a una frontiera insuperabile, davanti a un deserto di stagnazione, a un arresto del progresso tecnico?
La situazione è indubbiamente seria. Ho già detto che stiamo vivendo nel 1929 e, quel che è peggio, ci stiamo abituando. Ma, come diceva D.H. Robertson, Madama Storia e Madama Natura hanno sempre qualche sorpresa da riservarci. La storia non finisce.
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