Dopo le elezioni, l'attenzione in Europa sarà concentrata sul confronto fra sovranisti ed europeisti. Ma c'è un tema, inabissatosi negli ultimi mesi, destinato a tornare in primo piano e a creare scelte difficili e contrastate: la spinta di Parigi e Berlino a promuovere, attraverso fusioni e incentivi pilotati, aziende di dimensioni massicce, "campioni nazionali" (europei, in questo caso) in grado di competere ad armi pari, sui mercati globali, con americani e cinesi. L'occhiuto antitrust europeo deve piegarsi a queste esigenze o deve continuare a proteggere anzitutto la competizione, perché la concorrenza stimola le imprese e favorisce i consumatori? I giganti, insomma, fanno bene o fanno male?
Lo spirito a cui dovrà ispirarsi, nei prossimi anni, l'antitrust europeo sarà particolarmente importante, perché, dicono gli economisti, il capitalismo, nell'ultimo ventennio, dopo il vitale ribollio dello scorcio finale del XX secolo, sembra aver imboccato una strada lastricata di tentazioni monopolistiche. Lo testimoniano l'affanno e lo scrupolo con cui, da Silicon Valley, Big Tech si preoccupa di rastrellare e portare entro le mura di casa qualsiasi concorrente pericolosamente innovativo e, più in generale, la tendenza di molti settori di mercato a concentrare le vendite in poche mani. Il mondo delle imprese, dicono molti economisti, si sta sempre più fratturando in una pattuglia di imprese innovative ed efficienti che si lasciano alle spalle sempre più concorrenti intorpiditi e ansimanti. Attenzione, però, avvertono anche i ricercatori del Fondo monetario, perché le aziende in odore di monopolio sono solo inizialmente più efficienti e innovative. Poi, si siedono al riparo del loro potere di mercato. Forse, proprio da qui nasce il mistero del ristagno globale della produttività negli ultimi anni.
Il punto, per ora, è che, effettivamente, il mondo delle imprese si sta sempre più dividendo fra lepri e tartarughe. Non solo in America, ma, ormai, anche in Europa. E le conseguenze cominciano a vedersi: le lepri dirottano verso le loro casse il grosso dei profitti e, contemporaneamente, recintano i loro mercati. Rispetto al 2000, le statistiche, di qua e di là dell'Atlantico, registrano una riduzione del 3 per cento di nuove imprese che si affacciano sui mercati. I giganti, calcola l'Economist , ne approfittano. Nel 2000, le maggiori otto aziende di ogni singolo settore di mercato realizzavano, negli Usa, il 28 per cento delle vendite. Oggi sono al 38 per cento. Ma il fenomeno è anche europeo. Le big 8 di ogni comparto hanno visto crescere il loro fatturato dal 32 al 38 per cento del totale. Il fenomeno è anche più vistoso se si vanno a vedere le prime quattro di ogni comparto. In Europa, sono passate dal 22 al 26 per cento delle vendite. In America, la loro quota di mercato è cresciuta dal 21 al 29 per cento.
Inevitabilmente, questo significa anche un drenaggio di profitti, in un meccanismo che si autoalimenta. In America lo studiano da tempo, ma ora, gli analisti di Bloomberg lo documentano anche per l'Europa, Italia compresa. Nel nostro paese, nel 2001, il 10 per cento di aziende più dinamiche realizzava profitti più alti del 20 per cento rispetto all'impresa media del settore. Oggi, questa distanza si è allargata al 50 per cento. Sembra molto, ma queste cifre sono invece un'altra prova del ristagno italiano. Perché in altri paesi, che crescono più in fretta del nostro, la distanza è assai maggiore.
Secondo Bloomberg, in Svezia le aziende più efficienti sono passate da guadagnare il 30 per cento più delle altre al 180 per cento. In Gran Bretagna dal 50 al 130 per cento in più. Francia e Germania, in confronto, arrancano, ma cavalcano la tendenza assai più dell'Italia. In Germania le aziende migliori guadagnano il 90 per cento più delle altre (era il 35 per cento nel 2001). In Francia, il gap è passato da un 40 per cento di profitti in più al 60 per cento.
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