«Siamo io, i miei genitori e 5 fratelli». racconta il giovane Dabal Moussa, «mia madre e mio padre lavorano i campi», ma in Burkina la terra da coltivare quasi non c’è. Qualche ettaro seminato a miglio e raccolti sempre più scarsi, mentre qui chi trova l’oro se lo tiene e lo può vendere. I compratori non mancano, controllano il lavoro, stabiliscono i prezzi e pagano in contanti. Uno di loro si avvicina incuriosito dalla presenza dei bianchi nella miniera di Nebià e ci mostra un sassolino d’oro che non supera i due millimetri di diametro. «Si scavano buche che arrivano anche a 30 metri di profondità e l’oro c’è» assicura. Chi lo trova si rivolge a lui per venderlo in giornata e incassare il contante, quando gli affari vanno bene. Accanto alle “fosse” già scavate Jacques, poco meno di vent’anni, si aggira sul terreno con un metal detector artigianale quanto la miniera. A pochi metri dalla porzione di terra ispezionata da Jacques da una buca emerge uno degli “specialisti”. Il tempo di vedere la luce del giorno per calarsi subito nel buio della terra rossa da cui si scorge ormai solo il suo pollice alzato, segno che un secchio è pronto per essere vuotato in superficie e ricalato con una corda sfilacciata al limite della tenuta. Come Dabal, tanti piccoli cercatori d’oro, i bambini del buio del Burkina Faso lavorano senza sosta, senza cibo né acqua.
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Poco distante da Dabal, Alice maneggia abilmente una terrina di plastica facendola roteare alla ricerca di un milligrammo d’oro, una briciola quasi invisibile. Alza lo sguardo, due occhi neri e profondi come le buche della miniera fissano i nasara - così vengono chiamati i bianchi - poi ricomincia a far roteare la terrina corrosa dal mercurio e dal cianuro, i veleni usati dai bambini per lavare l’oro, anche se i giovani minatori negano l’utilizzo di queste sostanze. Ignari, forse, di inalare un metallo pesante potenzialmente letale. Ma tutto questo Alice non lo sa: in fondo ha soltanto sette anni, non parla francese, non sa nemmeno come sia fatto un banco di scuola, non ci è mai andata. Lavora alla miniera dalla mattina alla sera, magra e sporca sembra un’orfana assoldata come manovalanza da chi controlla quel lembo di savana poco distante dal villaggio di Dassà. Ma a Nebià ci arriva con la madre che zappa la terra, dove sarà scavata una nuova buca, e due sorelle più piccole.
Alice è già stanca a metà giornata, ricoperta di polvere e affamata.
In certi momenti lancia uno sguardo alla bottiglia vuota, vorrebbe bere un sorso d’acqua, ma con i suoi sette anni sa che quell’acqua non è destinata a lei, sa che il desiderio di placare la sua sete e alleviare la gola arsa non può valere quanto i 15 mila franchi Cefa di un grammo d’oro, poco più di 20 euro, una piccola fortuna che può emergere dalla sua terrina.
Attraversando la miniera di Nebià se ne incontrano a decine di bambini e ragazzi in cerca del prezioso oro, analfabeti senza futuro né prospettive, convinti che basti tenere tra le mani qualche grammo del brillante minerale per assicurarsi una vita dignitosa, lontana dalla fame e dalla miseria, condizioni in cui la maggior parte dei bambini del buio continueranno invece a vivere ma ancora non lo sanno, i loro occhi innocenti brillano di una speranza che si riflette nella polvere dorata.
Lasciando le miniere di Nebià, ai più grandi si augura buona fortuna e ai più piccoli si allunga quasi con vergogna una manciata di caramelle in attesa che ancora qualcosa avvenga nel Paese degli uomini integri dove già qualcuno, sommessamente, sogna la rivoluzione.
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