Si dice spesso che Karl Marx plaudisse allo sviluppo capitalistico (e al libero scambio che sarebbe secondo alcuni ad esso collegato) e che invece considerasse le resistenze a tale espansione (soprattutto nei paesi dell’Asia, dell’Africa e del mondo slavo) come legate alla reazione dei regimi connessi ai modi di produzione precedenti.
A tal proposito si citano le pagine de “Il Manifesto” e del “Discorso sul libero scambio” e quasi si afferma che sia stato il marxismo successivo a rimuovere la natura progressiva del capitalismo così affermata da Marx: è il caso di Giuseppe Bedeschi sul Corriere della Sera di qualche anno fa (e già sanzionato da Moreno Pasquinelli), del pensatore liberale Corrado Ocone, del giornalista economico Stefano Cingolani in un articolo su Panorama di inizio Maggio ma anche di alcune tesi degli interpreti anglosassoni di Marx (si pensi all’enfasi di Cohen sulla crescita delle forze di produzione e all’interpretazione evolutiva del pensiero marxiano da parte di Anderson), di alcuni aspetti dell’interpretazione postoperaista di Negri e Hardt (così come denuncia Domenico Losurdo), dell’accelerazionismo che finisce per mescolarsi con la visione postoperaista. Quest’articolo vuole essere un contributo al chiarimento di alcuni aspetti di questo problema interpretativo che ha tante implicazioni teoriche.
A questo proposito all’interno del discorso sui processi di produzione e riproduzione sociale che interessano la dimensione del ruolo dello Stato nell’epoca della globalizzazione (diventata oggi epoca del conflitto tra imperialismi come dimostrato ampiamente dal lavoro pluridecennale della Rete dei comunisti), una linea di tendenza interessante (che forse riguarda anche la dimensione politica della questione) è secondo l’economista Emiliano Brancaccio quella della centralizzazione dei capitali.
Essa avrebbe un ruolo di non poco conto nella valutazione delle lotte di liberazione nazionale che Domenico Losurdo mette invece in collegamento con le lotte per l’emancipazione sociale, con argomenti che esulerebbero dalla lettura marxiana e che non terrebbero conto proprio della centralizzazione dei capitali. Eppure questa tendenza, dice Brancaccio, è fondamentale per comprendere non solo la direzione dello sviluppo delle forze produttive ma anche il mutamento dei rapporti di produzione sociale: la centralizzazione dei capitali mette in crisi le piccole borghesie proprietarie e accelera la polarizzazione tra le classi sociali. Una lotta di emancipazione dai vincoli internazionali che venisse egemonizzata dalle sole rappresentanze di un piccolo capitalismo frammentato e in affanno, assumerebbe pressoché inesorabilmente caratteri reazionari, potenzialmente neofascisti. Questo tipo di lotta vede oggi in prima linea coloro che magari fanno propaganda contro le libertà civili per strizzare l’occhio al più retrivo cattolicesimo e che magari sono ansiosi di bloccare le frontiere per impedire l’accesso ai migranti ma non si sognerebbero mai di dare battaglia per il ben più rilevante controllo dei movimenti internazionali di capitale. A questi pezzi di società arretrata e alle loro rappresentanze politiche abbiamo lasciato il monopolio della critica dell’unificazione europea e della globalizzazione indiscriminata, e oggi ne paghiamo le conseguenze. Da un lato la centralizzazione dei capitali a livello internazionale scatena una competizione su scala mondiale che ostacola violentemente le possibilità di organizzazione delle lotte sociali e di costruzione di un nuovo movimento operaio. Dall’altro lato la centralizzazione dei capitali schiaccia i piccoli proprietari, ridimensiona i cosiddetti ceti medi, sgombra il campo dai residui sociali del vecchio regime, accresce le dimensioni complessive della classe lavoratrice e per questa via contribuisce a ricreare condizioni favorevoli per una ripresa dell’antagonismo con il grande capitale. Per l’analisi marxista dei processi politici il puzzle teorico da risolvere è precisamente questo: occorre misurarsi continuamente con questa contraddittorietà insita nella legge di tendenza alla centralizzazione dei capitali, con i suoi aspetti regressivi e progressivi, e con il prevalere degli uni o degli altri a seconda della concreta situazione sotto esame.
Oggi processi di centralizzazione dei capitali alimentano una guerra internazionale tra lavoratori che tende a soffocare ogni istanza rivendicativa. Ma rilevare che in questa fase la centralizzazione svolge soprattutto una funzione regressiva non significa dimenticare che sotto le ceneri che essa produce cova anche la sua forza progressiva, quella che esalta il contrasto tra mercato decentrato e accentramento del potere capitalistico e che in prospettiva potenzia ed eleva il conflitto sociale. I programmi e le iniziative politiche dovrebbero di volta in volta esser costruiti tenendo conto di questa fondamentale contraddizione. Solo su queste basi, io credo, un “nuovo internazionalismo del lavoro” potrebbe incunearsi nello scontro tra grandi e piccoli capitali, in Europa e nel mondo.
D’altro canto l’argomentazione di Domenico Losurdo relativamente al ruolo delle lotte di liberazione nazionale in realtà parte da una revisione della teoria marxiana della lotta di classe. Quella tra proletariato e borghesia sarebbe solo una delle lotte di classe e queste, attraversando in profondità la storia universale, non sono affatto una caratteristica esclusiva della società borghese e industriale. Esiste una pluralità di forme della lotta di classe e bisogna sottrarsi a un’interpretazione binaria di essa, declinata cioè esclusivamente nei termini della lotta borghesia-proletariato. Accanto a quest’ultima, esistono essenzialmente altre due forme di lotta di classe, ossia quella per l’emancipazione della donna e quelle per l’emancipazione dei popoli dalla condizione coloniale prima e neo-coloniale poi. Inoltre Losurdo evidenzia come le lotte per la liberazione nazionale di José Martì e di Sun Yat Sen hanno criticato il neocolonialismo e sono state propedeutiche sia alla rivoluzione cubana che alla rivoluzione cinese.
Credo che sia troppo complesso affrontare l’idea di una pluralità di forme di lotta di classe, visto che Marx non ha sviluppato sistematicamente questo aspetto del suo pensiero, almeno allo stesso grado di profondità con cui ha elaborato la sua critica dell’economia politica. Ad una prima impressione Losurdo sembra sovrapporre forme di lotta di classe più antiche a forme di lotta di classe più recente (una parte della molteplicità di forme si snoda cioè nel tempo) e al tempo stesso considera una forma di lotta di classe la lotta dei popoli per l’indipendenza e quella della donna per la sua emancipazione, operazione che andrebbe meglio definita teoricamente.
Perciò facciamo un passo indietro e proveremo a chiarificare alcuni aspetti di questa disputa (una lotta basata sull’appartenenza nazionale si innesta nella lotta contro il Capitale o è una forma solo regressiva?) con strumenti meno complessi di quelli utilizzati sia da Brancaccio che da Losurdo. Se si legge il Discorso sul libero scambio del giovane Marx e alcuni passi del Manifesto (dove si parla del socialismo feudale, di quello piccolo-borghese e di quello tedesco) sembrerebbe che un atteggiamento marxista debba considerare regressive tutte le lotte intraprese da classi come l’aristocrazia terriera, la piccola e la grande borghesia nazionale, e dunque molte delle lotte di liberazione nazionale. Inoltre, quando Marx dice di votare a favore del libero scambio perché esso è distruttivo, dissolve le antiche nazionalità e spinge all’estremo l’antagonismo tra borghesia e proletariato accelerando la rivoluzione sociale, sembra proprio che ogni battaglia propria di uno Stato nazione per difendersi dall’ingresso di capitale (e di conseguente egemonia culturale) straniero sia di per sé irrilevante (se non dannosa) ai fini della lotta di classe.
Infine Marx nell’Ideologia tedesca dice che il comunismo è possibile empiricamente solo come azione dei popoli dominanti tutti in una volta e simultaneamente, ciò che presuppone lo sviluppo universale delle forze produttive e le relazioni mondiali che il comunismo implica. Ciò in quanto senza che la perdita di proprietà diventi universale il comunismo potrebbe esistere solo come fenomeno locale, le stesse potenze dello scambio non si sarebbero potute sviluppare come potenze universali, e quindi insostenibili, e sarebbero rimaste « circostanze » relegate nella superstizione domestica, e dunque ogni allargamento delle relazioni sopprimerebbe lo stesso comunismo locale.
Molto interessanti sono pure gli articoli scritti da Marx per il New York Daily Tribune in cui egli analizza la situazione di tre grandi paesi interessati dal colonialismo ovvero Cina, India e Russia. In questi articoli (che non rappresentano però in modo del tutto sincero il suo pensiero dal momento che egli ha accettato l’incarico essenzialmente per ragioni economiche dato che il giornale rappresentava la borghesia industriale americana protezionistica nei fatti e filantropica nella sua ideologia) ad es. a proposito dell’India e del suo sistema di villaggio egli dice che
“per quanto possa ferire i sentimenti umani il vedere quella miriade di industriose comunità patriarcali ed inoffensive disorganizzate e frantumate e gettate in un mare di dolori …. non dobbiamo dimenticare che quelle idilliche comunità di villaggio, per quanto inoffensive possano sembrare sono sempre il solido fondamento del dispotismo orientale, hanno sempre confinato l’intelletto umano nell’ambito più ristretto possibile, facendone il docile strumento della superstizione, rendendolo schiavo di norme tradizionali, privandolo di qualsiasi grandezza e di energie storiche”.
Poi aggiunge
“può l’umanità adempiere il proprio destino senza che avvenga una rivoluzioni fondamentale nei rapporti sociali dell’Asia? Se così non fosse, quali che siano stati i delitti commessi dall’Inghilterra, essa è stata lo strumento inconsapevole della storia nel suscitare quella rivoluzione”.
Poi dice
“La società indiana non ha storia … ciò che chiamiamo la sua storia non è che la storia degli intrusi che uno dopo l’altro fondarono i loro imperi sulla base passiva di una società rassegnata e immutabile. La questione non è se gli Inglesi avevano diritto a conquistare l’India, ma se si deve preferire un’India conquistata dai Turchi, dai Persiani, dai Russi ad un India conquistata dagli Inglesi. L’Inghilterra deve assolvere una doppia missione in India, una distruggitrice, l’altra rigeneratrice: annientare la vecchia società asiatica e porre le fondamenta materiali della società occidentale in Asia”.
Marx dice che l’unità dell’India sarà più forte con il dominio britannico che con il Gran Mogol e così l’esercito indiano si formerà a partire da quello addestrato e controllato dagli Inglesi, il commercio indiano sarà possibile a partire dal telegrafo portato dagli Inglesi e dalle strade ferrate costruite dagli Inglesi e l’industria indiana si costituirà proprio per costruire treni e ferrovie. Egli conclude dicendo
“Tutto quello che la borghesia inglese sarà costretta a fare non emanciperà e non modificherà materialmente la condizione sociale della massa della popolazione che dipende non solo dallo sviluppo della capacità produttiva, ma dall’appropriazione di questa da parte del popolo. Ma ciò che essa non potrà mancare di fare è di porre le premesse materiali per entrambi. Ha forse la borghesia mai fatto di più? Gli indiani non raccoglieranno i frutti dei nuovi elementi sociali gettati tra di loro dalla borghesia britannica finché nella stessa Gran Bretagna le attuali classi dominanti non saranno soppiantate dal proletariato industriale o finché gli stessi indiani non saranno diventati abbastanza forti da spezzare il giogo britannico”.
E aggiunge
“Gli effetti devastatori dell’industria inglese … sono palpabili e sconcertanti. Ma non dobbiamo dimenticare che essi sono soltanto i risultati organici dell’intero sistema di produzione come è costituito oggi. La produzione poggia sul dominio supremo del capitale. L’accentramento del Capitale è essenziale per l’esistenza del capitale in quanto potere indipendente. L’influenza distruttiva di questo accentramento sui mercati mondiali non fa che mettere a nudo in dimensioni ormai gigantesche le leggi organiche immanenti dell’economia politica oggi operanti in ogni città civilizzata. Il periodo storico borghese deve creare le basi materiali del nuovo mondo, da una parte lo scambio universale fondato sulla dipendenza reciproca dei popoli e i mezzi di questo scambio; dall’altra lo sviluppo delle forze produttive dell’uomo e la trasformazione della produzione materiale in un dominio scientifico del fattori naturali. L’industria e i commercio borghesi creano queste condizioni materiali per un mondo nuovo nello stesso modo in cui le rivoluzioni geologiche hanno creato la superficie della Terra; quando una grande rivoluzione sociale si sarà impadronita delle conquiste dell’epoca borghese, dei mercati mondiali e dei moderni mezzi di produzione e li avrà assoggettati al controllo collettivo dei popoli più progrediti, soltanto allora il progresso umano cesserà di assomigliare a quell’orrendo idolo pagano che voleva bere il nettare soltanto dai crani degli uccisi”.
Soprattutto queste ultime citazioni sembrerebbero avvalorare l’idea di un Marx non antimperialista.
Tuttavia già in questo ambito di interpretazione vanno precisate alcune cose: in primo luogo Marx dice di appoggiare il libero scambio solo in questo senso rivoluzionario e di non credere a tutte le tesi ideologiche della borghesia riguardo alla bontà del libero scambio (o del protezionismo). Perciò non è che, appoggiando il libero scambio, Marx ne apprezzi il carattere progressivo, ma solo il suo carattere distruttivo. Esso contribuisce proprio a rendere binaria la lotta di classe ed a vanificare tutte le vecchie contrapposizioni esistenti (tra le quali quelle che incoraggiano la guerra tra nazioni). Esso pone, con enorme spreco di vite umane, le basi materiali che però abbisognano della rivoluzione proletaria perché siano usate senza provocare orrore. Solo la rivoluzione sociale può porre mercati mondiali e mezzi di produzione sotto il controllo dei popoli più progrediti (e questi sono più progrediti non per motivi spirituali o culturali in senso idealistico, ma per le ragioni materialistiche del modo di produzione in uso che genera pure la cultura ad esso corrispondente). Dunque Marx possiamo dire sia eurocentrico (o quanto meno non è un multiculturalista) ma non avalla il colonialismo: quest’ultimo è il processo capitalistico che pone le basi materiali per la rivoluzione sociale, ma non va appoggiato dai comunisti dal momento che la formazione del mercato mondiale non ha bisogno dell’appoggio di nessuno. Né va contrastato chi si oppone dal momento che la sua opposizione (che non va demonizzata come Marx evidenzia parlando della rivolta dei sepoys e della possibilità per gli indiani di spezzare il giogo britannico) non impedirà la formazione del mercato mondiale. Quest’ultimo in realtà non implica nemmeno necessariamente il colonialismo né processi che possano definirsi come imperialisti dal momento che gli indiani possono diventare essi stessi una nazione capitalistica. Marx nel 1850, parlando della Cina, ipotizza una possibile rivoluzione socialista di marca cinese e dice
“Certo il socialismo cinese potrà corrispondere a quello europeo quanto la filosofia cinese a quella di Hegel; tuttavia è sempre un fatto curioso che nel giro di otto anni le balle di cotone dei borghesi d’Inghilterra abbiano spinto l’impero più antico e stabile della terra alla vigilia di un rivolgimento sociale che in ogni caso avrà conseguenze importantissime per la civiltà”.
Poi precisa
“Quali che siano le cause sociali che hanno provocato lo stato endemico di ribellione esistente in Cina da almeno una decina d’anni ed ora sommatesi tutte in una formidabile rivoluzione e quale che sia la forma religiosa, dinastica o nazionale da esse assunta, l’occasione di questa esplosione è stata indubbiamente offerta dai cannoni inglesi …”.
Da qui si deduce che il colonialismo ha storicamente un pregio, e tuttavia è possibile di conseguenza una rivoluzione di un qualsiasi forma (religiosa, politica) che va vista con favore, come un fatto nuovo tanto che Marx aggiunge
“Ora che l’Inghilterra ha provocato la rivoluzione in Cina, si pone il problema di come quella rivoluzione col passare del tempo reagirà sull’Inghilterra e attraverso l’Inghilterra sull’Europa”.
e ancora
“In questa situazione, poiché il commercio inglese ha già quasi percorso il regolare ciclo economico, si può tranquillamente prevedere che la rivoluzione cinese farà scoccare la scintilla nella polveriera satura dell’attuale sistema industriale, provocando l’esplosione della crisi generale lungamente preparata, che si propagherà all’estero e sarà seguita a breve distanza da rivoluzioni politiche sul continente”.
Dunque è possibile che il colonialismo occidentale causi una rivolta nazionalista in un paese fino ad allora isolato e questa rivolta nazionalista metta in difficoltà lo stesso paese colonialista: quest’ultimo diventa involontariamente un fattore di progresso storico ma questo non implica che la sua politica vada approvata o incoraggiata o che esso vada difeso dalla reazione del popolo colonizzato. Anzi, la rivolta, provocando una contrazione dei mercati, può causare o accelerare una crisi industriale del paese colonialista stesso. Marx non considera il capitalismo necessario per la modernizzazione dei paesi non ancora capitalistici e anzi pensa che tale modernizzazione sia più possibile con una gestione socialista dei paesi più progrediti. L’espansione mondiale del modo di produzione capitalistico consiste dunque per Marx di un processo che passa sopra la testa delle due classi sociali contrapposte e che contribuisce a renderne binario il conflitto a livello mondiale. Si pensi anche al fatto che Marx non sta parlando a degli iscritti di un partito comunista indiano o cinese, ma ai lettori di un giornale ai quali egli tiene a precisare che non si deve parteggiare né per coloro che vogliono schiacciare ad es. la rivolta dei sepoys né gli umanitarismi ipocriti che vogliono apparentemente difendere i regimi arcaici autoctoni dell’India. Per Marx il mercato mondiale si sta già formando ed è possibile (anzi imminente) una rivoluzione sociale nei punti alti dello sviluppo capitalistico che poi ne regoli il successivo decorso. La rassegnazione di Marx nei confronti del colonialismo è strettamente associata con la possibilità di una rivoluzione imminente nei paesi a capitalismo avanzato. Nel Manifesto Marx ai socialismi elencati aggiunge (con la sua consueta ironia) il socialismo borghese che consiste nell’affermazione che i borghesi sarebbero borghesi nell’interesse della classe operaia (!). Perciò Marx non suggerisce una alleanza con la grande borghesia in antitesi alla piccola borghesia, né si può pensare suggerirebbe oggi di utilizzare il grande capitale per distruggere i piccoli capitali, o l’imperialismo americano per distruggere i regimi autoritari del Medio Oriente. Il processo che porta al libero scambio è il processo di liberazione del capitale, un processo oggettivo che non per questo va appoggiato così come non andrebbe contrastato. Al tempo stesso per Marx il protezionismo non vuole né può essere contro il libero scambio. Questo anche perché il proletariato sarebbe stato impegnato a fare altro. A questo proposito va ricordato il fatto che in Marx agiva quella asincronia tra livello di analisi e livello strategico, livello teorico e pratico, livello economico e livello politico che è stato individuato sia pure in maniera faziosamente ideologica da alcuni interpreti.
In ambito marxista Marcello Musto ha fatto notare che nel 1849 e nel 1850 (e poi nel 1855) Marx si aspettava una crisi economica da cui dovevano derivare conseguenze rivoluzionarie, conseguenze che invece si videro (almeno parzialmente) solo 15-20 anni dopo. Quindi Marx, in alcuni momenti della sua riflessione e anche della sua vicenda politica, si aspettava sconvolgimenti rivoluzionari in senso socialista nell’arco di qualche anno. E con queste prospettive egli diceva di non attardarsi a seguire i vessili del socialismo feudale, piccolo borghese, borghese e socialista utopista. L’imminenza rivoluzionaria consentiva a Marx di non porsi il problema di queste ideologie che si attardavano a trattenere ciò che non poteva né doveva essere trattenuto. Tuttavia circa trent’anni dopo (con un certo bagaglio di disillusioni) un Marx intento di nuovo ad aggiornare la propria analisi mette in dubbio il presupposto per cui il passaggio al socialismo dovesse sempre essere preceduto da una fase in cui fosse dominante il modo di produzione capitalistico. Rispondendo alla socialista russa Vera Zasulic che aveva posto la questione se la comune rurale russa fosse in grado di evolvere verso il socialismo o se i socialisti avrebbero dovuto attendere il suo disfacimento e la creazione anche in Russia di un capitalismo paragonabile a quella dell’Europa occidentale, Marx prima cita la sua stessa opera quando dice
“Al fondo del sistema capitalistico vi è dunque la separazione radicale del produttore dai mezzi di produzione … la base di tutta questa evoluzione è l’espropriazione dei coltivatori; essa si è verificata finora in modo radicale solo in Inghilterra … ma tutti gli altri paesi dell’Europa Occidentale percorrono lo stesso movimento”.
e aggiunge
“Dunque la fatalità storica di questo movimento è espressamente circoscritta ai paesi dell’Europa Occidentale …”
e nell’abbozzo preparatorio di risposta (molto più lungo) a proposito della Russia egli scrive
“Perché in Russia, grazie ad una combinazione di circostanze uniche, la comune rurale, ancora stabilita sull’intera estensione del paese, può gradatamente spogliarsi dei suoi caratteri primitivi e svilupparsi direttamente come elemento della produzione collettiva su scala nazionale; è proprio grazie alla contemporaneità della produzione capitalistica che essa può appropriarsene le conquiste positive senza passare attraverso le sue atroci peripezie … se gli innamorati russi del sistema capitalistico negassero la possibilità teorica di una tale evoluzione io chiederei loro: per sfruttare le macchine, i battelli al vapore, le ferrovie, la Russia è stata forse costretta come l’occidente ad attraversare un lungo periodo di incubazione dell’industria meccanica? Mi spieghino inoltre come hanno fatto ad introdurre in casa propria in un battibaleno l’intero meccanismo degli scambi (banche, società di credito) la cui elaborazione è costata secoli all’Occidente”.
Da questa breve analisi di alcuni scritti di Marx si può dunque desumere riassumendo che:
- Il comunismo è possibile empiricamente solo come azione dei popoli dominanti tutti in una volta e simultaneamente, ciò che presuppone lo sviluppo universale delle forze produttive e le relazioni mondiali che il comunismo implica. Ciò in quanto senza che la perdita di proprietà diventi universale il comunismo potrebbe esistere solo come fenomeno locale, le stesse potenze dello scambio non si sarebbero potute sviluppare come potenze universali, e quindi insostenibili, e sarebbero rimaste « circostanze » relegate nella superstizione domestica, e dunque ogni allargamento delle relazioni sopprimerebbe lo stesso comunismo locale. Tuttavia è possibile fare delle rivoluzioni (che conducano ad una transizione al socialismo) anche in singoli paesi non solo europei.
- Marx al massimo ritiene alcuni popoli più sviluppati di altri non per motivi spirituali o culturali in senso idealistico, ma per le ragioni materialistiche del modo di produzione in uso che genera pure la cultura ad esso corrispondente (anche se nel linguaggio più colloquiale egli ha una sorta di orrore per i Tartari ed un disprezzo per lo zarismo). Quandouna grande rivoluzione sociale si sarà impadronita delle conquiste dell’epoca borghese, dei mercati mondiali e dei moderni mezzi di produzione e li avrà assoggettati al controllo collettivo dei popoli più progrediti, soltanto allora il progresso umanoavrà costi meno alti. Perciò non sarà l’imperialismo a far progredire i popoli meno sviluppati, ma la transizione al socialismo dei popoli più sviluppati.
- Marx ritiene che il colonialismo occidentale abbia scosso altre nazioni (soprattutto in Asia l’India e la Cina) da una sorta di sonno secolare ed in questo consiste la sua funzione “provvidenziale”. Allo stesso modo il libero scambio è distruttivo, dissolve le antiche nazionalità e spinge all’estremo l’antagonismo tra borghesia e proletariato (rendendo binario il conflitto di classe, contra Losurdo) accelerando la rivoluzione sociale, per cui in questo senso è preferibile al protezionismo, ma sono in realtà due facce della stessa medaglia e il primo è preferibile al secondo proprio in vista dell’imminenza di crisi rivoluzionarie.
- Del resto “il sistema protezionista non è che un mezzo per impiantare presso un popolo la grande industria, ossia per farlo dipendere dal mercato mondiale, e dal momento che si dipende dal mercato mondiale, si dipende già più o meno dal libero scambio. Oltre a ciò, il sistema protezionista contribuisce a sviluppare la libera concorrenza all'interno di un paese; per questo noi vediamo che nei paesi in cui la borghesia comincia a farsi valere come classe, in Germania ad esempio, essa compie grandi sforzi per avere dei dazi protettivi; sono queste le sue armi contro il feudalesimo e contro il governo assoluto, è questo un suo mezzo di concentrare le proprie forze per realizzare il libero scambio all'interno dello stesso paese”. Perciò libero scambio e protezionismo sono fasi che scandiscono lo sviluppo capitalistico e non sono alternative tra loro per cui la scelta (tattica) tra le due dipende dalla fase (Marx che credeva in una rivoluzione imminente preferiva all’epoca il libero scambio ma si tratta di un’opzione contingente).
- Il mercato mondiale non implica nemmeno necessariamente il colonialismo né processi che possano definirsi come imperialisti dal momento che i popoli soggetti all’imperialismo possono diventare essi stessi una nazione capitalistica o addirittura avviarsi verso una transizione al socialismo senza passare per il modo di produzione capitalistico. E’ possibile che il colonialismo occidentale causi una rivolta nazionalista in un paese fino ad allora isolato e questa rivolta nazionalista metta in difficoltà lo stesso paese colonialista: quest’ultimo diventa involontariamente un fattore di progresso storico ma questo non implica che la sua politica vada approvata o incoraggiata o che esso vada difeso dalla reazione del popolo colonizzato. Anzi, la rivolta, provocando una contrazione dei mercati, può causare o accelerare una crisi industriale del paese colonialista stesso.
- Al tempo stesso, poiché il passaggio al capitalismo è una necessità valida solo per l’Europa, è possibile pensare ad una transizione al socialismo in alcuni paesi senza tale passaggio proprio grazie alla contemporaneità della produzione capitalistica, che consente l’uso di tutta la macchina produttiva che quest’ultima ha reso possibile senza mutuarne i rapporti di produzione.
Come si vede, in questi articoli di Marx possiamo individuare un modello di ragionamento che è preludio di quasi tutta la riflessione marxista successiva e che ci consente di rivalutare le lotte di liberazione nazionale (si noti il punto 6 del precedente elenco) senza dover estendere il concetto di lotta di classe.
Questa posizione è rafforzata dal fatto che, contrariamente a quanto pensava inizialmente Marx, il processo di espansione mondiale del capitale non è stato quello unilateralmente legato alla libertà di commercio quanto piuttosto ad un alternarsi di politiche di libero mercato e di protezionismo in diverso grado, a diversi livelli ed in sempre diversi contesti geopolitici e geoeconomici. Questo ha consentito la distruzione di Imperi e di Stati ma anche la formazione di nuovi Stati per cui la binarizzazione della lotta di classe è stata di volta in volta rinviata senza che questo dovesse significare per i comunisti la necessità di accelerare i processi dando carta bianca al capitale internazionale di muoversi come meglio credesse. Il contesto strategico si è cioè evidenziato come più complesso di quanto si potesse prevedere.
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