·IL DOCUMENTO DEL 2016
Nell'occhio del ciclone c’è ora il vicepresidente, il 36enne Andrew Bosworth. Nella nota del 18 giugno di due anni fa 'Boz', così lo chiamano, scriveva: "Noi connettiamo le persone. Punto. È per questo che tutto il lavoro che facciamo per la crescita è giustificato. Tutte quelle discutibili pratiche per importare i contatti. Tutto il lavoro che facciamo per creare più comunicazione. Tutto ciò può essere negativo se usato in maniera cattiva. Magari costa la vita a qualcuno che entra in contatto con dei bulli. Magari qualcuno muore in un attacco terroristico organizzato grazie ai nostri strumenti. Eppure noi mettiamo in connessione le persone". C’è perfino una sottile nota di oscura ironia, nelle parole di uno dei più stretti collaboratori di Mark Zuckerberg e volti più noti di Facebook, molto attivo su Twitter anche nelle repliche a dubbi e accuse, assunto a Menlo Park fin dal 2006, quindi dai primissimi anni di vita della piattaforma.
Crescere, crescere a ogni costo. E a qualsiasi prezzo, anche quello della sicurezza degli utenti. Dal passato di Facebook spuntano così non solo manager pentiti e in autoflagellazione – com'è accaduto lo scorso autunno con Sean Parker e altri – ma anche documenti riservati, memo destinati alla circolazione interna che tuttavia sollevano una luce diversa agli eventi più recenti. Scandalo Cambridge Analytica su tutti.
Appena diffusa la nota, l'alto papavero è in realtà tornato in parte sui suoi passi proprio attraverso Twitter, spiegando di non essere d’accordo con quel post oggi così come non lo era neanche quando l’aveva scritto. "Lo scopo, come altri scritti da me internamente, era di portare in superficie questioni che pensavo dovessero essere discusse più ampiamente" ha cinguettato Bosworth per cercare di placare lo scandalo e allinearsi alla lettura di Zuckerberg, secondo il quale il vicepresidente è "un leader di talento che dice cose provocatorie". In effetti un'altra parte la prima parte del memo risponde a questo approccio: "Tutto ciò può essere positivo se sfruttato nel modo giusto – si legge ancora – magari qualcuno trova l'amore. Magari si riescono a salvare le vite di alcuni che pensano di suicidarsi". Salvo poi, come visto prima, virare verso gli usi scorretti del social e delle sue risorse.
Figuriamoci se, nel pieno dello scandalo sui dati di 51 milioni di utenti dragati tramite un’applicazione e rivenduti per fini di microtargeting politico in una serie di tornate elettorali internazioali, l’azienda possa permettersi di far passare un simile messaggio. E cioè che il fine giustifichi i mezzi: “Molti di noi, me compreso, ci siamo trovati in disaccordo” con quanto ha detto Bosworth, ha spiegato Zuckerberg.
Negli ultimi giorni, intanto, il caso Cambridge Analytica ha continuato a evolversi. Per esempio, secondo il whistleblower Christopher Wylie, che ha deposto di fronte alla commissione Affari interni della Camera dei Comuni britannica, a quella mole di dati avrebbe lavorato fuori da ogni accordo anche la società Palantir, cofondata dal miliardario Peter Thiel, uno dei pochi nella Silicon Valley a sostenere Donald Trump, cofondatore di PayPal e anche azionista di Facebook. Rivelazione prima negata dal suo gruppo e poi, in una nota al New York Times, confermata, tentando di circoscriverla a un solo dipendente a cavallo fra 2013 e 2014. Secondo il Times si tratterebbe di un esperto di base a Londra tale Alfredas Chmieliauskas, che avrebbe dato una mano a Cambridge Analytica nel perfezionamento dei metodi di profilazione degli utenti. Insomma, la macchia d’olio continua ad allargarsi. E a farsi sempre più scivolosa.
Tornando a Bosworth, che all’epoca era responsabile delle strategie pubblicitarie e dalla fine del 2017 dirige la divisione hardware di Facebook, per quanto provocatorie le sue parole di due anni fa testimoniano come il gruppo fosse già del tutto al corrente della pessima gestione dei suoi strumenti e dei dati. Ma che questo, pur preoccupando molti executive, avrebbe portato a qualche cambiamento solo nel 2017. In fondo, è proprio questo uno dei punti caldi rispetto alle accuse mosse nel caso Cambridge Analytica: perché l’azienda, pur rassicurata sulla (presunta) distruzione di quei dati spremuti tramite l’app “thisisyourdigitallife”, non ha informato gli utenti e ripulito con rapidità e severità app e servizi collegati, cosa che promette di fare solo oggi? Più in generale, ne esce una sensazione di impotenza rispetto agli infiniti usi distorti della piattaforma.
A chi replica su Twitter al manager, chiedendogli perché mai avesse scritto un memorandum che non condivideva, risponde che “voleva essere una provocazione. Era una delle cose più impopolari che ho scritto internamente e doveva solo aprire un dibattito interno per migliorare i nostri strumenti”. Eppure altri manager, come il responsabile della sicurezza Alex Stamos, pare stessero spingendo da tempo in quella direzione. Che le due figure più potenti, Mark Zuckerberg e Sheryl Sandberg, debbano altre spiegazioni sulle ragioni per cui quelle preoccupazioni non sono state ascoltate per intero?
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