La storia recente del nostro Paese è tutta racchiusa nella diversità dei destini delle ultime tre generazioni. Quella del dopoguerra ha lavorato con passione e speranza creando una grande ricchezza diffusa per sé e i propri figli. Poi è arrivata la generazione del baby boom — cresciuta col benessere e investita dal vento forte della globalizzazione neoliberista — che, partita piena di speranze, lascia di fatto in eredità molti debiti e pochi figli. Ora è arrivata la generazione dei Millennials, cresciuti in un mondo di aspettative discendenti e purtroppo spesso costretti alla scelta tra emigrare o stare in panchina.
Le ragioni di questo declino sono tante. Ma se l’Italia sta da tempo scivolando su un piano inclinato è perché, a partire dagli anni 80 (quando il debito pubblico è passato dal 60 al 120% del Pil), il nostro Paese ha smesso di essere una repubblica fondata sul lavoro per diventare il Paese della rendita, del debito pubblico, dello sfruttamento.
Ora però la lunga transizione cominciata nel 2008 spinge per riportare il lavoro al centro della scena. Lo confermano molti segnali: le imprese che creano occupazione sono quelle che, scommettendo sulla qualità integrale, considerano i dipendenti non risorsa da sfruttare ma un bene da valorizzare. D’altro canto, sappiamo che a venire sostitute dalle nuove tecnologie digitali sono e saranno le attività più standardizzate e codificate. Già oggi, a difendersi meglio dall’arrivo dei robot e della intelligenza artificiale sono le occupazioni che meglio incarnano le specificità insostituibili del lavoro umano: creatività, capacità di gestione della complessità, problem solving e lavoro di gruppo. Per il nostro Paese, cogliere le opportunità di questa nuova fase storica è una meta impegnativa ma ineludibile. Una via stretta che comincia con il mettere in agenda tre questioni da tempo rimandate.
Si discute tanto di formazione e competenze. Ma su una cosa almeno possiamo essere d’accordo: occorre superare le false dicotomie che separano invece di tener insieme. Non va bene un’idea di cultura astratta, distaccata, elitaria; ma nemmeno un tecnicismo asfittico, schiacciato sul fare per il fare. La persona intera è fatta di più dimensioni (cognitiva, emotiva, manuale, sociale) che vanno stimolate e curate, avendo cura di attivare sia il sapere teorico che quello pratico. Il che comporta superare gli steccati tra apprendimento teorico e pratico, tra scuola e lavoro. Anche perché abbiamo bisogno di non perdere nessuno per strada. Alla lunga, non c’è nemmeno crescita se non ci si cura dei giovani, soprattutto di quelli più fragili. In una prospettiva di sviluppo sostenibile, l’inclusione è un principio economico.
Secondariamente, rimettere al centro il lavoro significa creare un ambiente favorevole a chi lo crea e a chi lo esercita. Un obiettivo che in Italia appare ancora molto lontano. Ciò concretamente significa: detassare quanto più possibile il lavoro e più in generale le attività che lo creano; fare arrivare a chi crea lavoro le risorse disponibili (smettendo di alimentare la rendita); allineare il ruolo della pubblica amministrazione all’idea che il lavoro si crea solo là dove si riconosce e si investa su quello che M. Porter chiama «valore condiviso» — condizione per essere competitivi, creare valore e far emergere nuovi beni e nuovi consumatori (ad esempio modificando la disciplina degli appalti pubblici dal criterio del «minimo costo» a quello della «massima dignità»).
Il punto è che solo il lavoro che riconosce la dignità del lavoratore e lo ingaggia nella produzione di un valore non solo economico rende sostenibile la competitività e permette di fronteggiare la sfida della digitalizzazione. Per questo oggi, per fare la quantità di lavoro occorre puntare sulla sua qualità: passare da un’economia della sussistenza — come fabbricazione e sfruttamento — ad un’economia dell’esistenza - produttrice, cioè, di saper-vivere e di saper-fare — è la via per salvare e insieme umanizzare il lavoro.
Realizzare una tale conversione non è facile. Tanto più per un Paese come l’Italia che viene da un lungo periodo di disorientamento.La proposta della 48esima edizione delle Settimane Sociali dei Cattolici italiani (che si svolge in questi giorni a Cagliari) è che proprio la nuova centralità del lavoro segni la via che dobbiamo percorrere, diventando il cardine di una inedita alleanza intergenerazionale capace di salvare i nostri figli dalla stagnazione e gli anziani da una progressiva perdita di protezione.
Per vincere la sfida del tempo che viviamo occorre dotarsi di strumenti (fiscali e finanziari) per accelerare il più possibile la messa in circolo del consistente patrimonio (etimologicamente il dono-del-padre) mobiliare e immobiliare ancora nella disponibilità delle famiglie italiane (e concentrato nelle mani degli ultra sessantenni) a sostegno di quelle attività economiche che investono nel lavoro di qualità. Specie dei giovani.
In un Paese demograficamente bloccato nessuno può pensare di salvarsi da solo senza dare il proprio contributo a riprendere il sentiero della crescita perduto ormai molto tempo fa.
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