Forse è utile cominciare dalla geometria e osservare come sempre di più il capitalismo italiano perda la tradizionale forma a piramide e acquisti quella a trapezio. Per dirla più crudamente il vertice sparisce e il baricentro si sposta in basso. L’elenco delle grandi aziende che in un lasso di tempo breve è passata in mano straniera comprende oltre l’Italcementi dei Pesenti la Loro Piana, la Pirelli e la Indesit. Tra le imprese private di lignaggio storico solo la Fiat si è proposta e si sta proponendo come polo aggregante, pur scontando la diluizione della presenza azionaria della famiglia Agnelli.
In generale si può dire che per il combinato disposto di 13 anni di euro e 7 di Grande Crisi gli imprenditori italiani non sono riusciti a mettere su la taglia necessaria per poter restare in gara come aggregatori nei settori caratterizzati da iper-concentrazione. Continuiamo a rappresentare la seconda manifattura d’Europa pur assomigliando a un trapezio e avendo perso lo slancio della piramide. Tra i sostenitori della moneta unica c’era chi aveva paventato qualcosa di simile ma allora si confidava romanticamente nella nascita di campioni europei, ovvero gruppi industriali a governance plurinazionale grosso modo paritaria. Non è avvenuto quasi mai, bensì la costante è che un grande gruppo prevalentemente tedesco o francese ne aggreghi altri di differenti Paesi Ue. Dando per scontato che la vendita del cemento abbia ferito l’orgoglio degli italiani e che non sarà di certo l’ultima della serie, occorre forse ragionare in termini nuovi sul tipo di rapporti che si devono stabilire con le multinazionali. Anche se finora non abbiamo avuto comportamenti particolarmente ostili da parte dei grandi gruppi che hanno comprato aziende italiane e persino Thyssen, Electrolux e Whirlpool alla fine siano scesi a patti con governo e sindacati. In almeno un caso poi, penso al farmaceutico, la presenza delle multinazionali è servita a motivare i nostri imprenditori di taglia media che si sono a loro volta internazionalizzati.
La base alta del trapezio di cui abbiamo parlato è rappresentata dalle nostre multinazionali tascabili e già l’aggettivo ne tradisce la caratteristica decisiva, quella di lavorare prevalentemente sulle nicchie e di aver raggiunto per questa via uno status di azienda globale. Ne abbiamo un bel numero e progressivamente il plotone si sta allargando, del resto la straordinaria avanzata dell’export italiano negli anni della Grande Crisi è stata possibile proprio perché la platea si è ampliata. Le nostre aziende medio-grandi hanno dunque grandi pregi e alcune di esse come Ferrero e Lavazza hanno in corso processi di aggregazione all’estero, eppure i difetti non mancano e si vedono a occhio nudo. Non sono sufficientemente managerializzate e in molti casi nutrono una vera idiosincrasia nei confronti della Borsa: due fattori che ne hanno finora limitato le potenzialità. Comunque il mix settoriale di questo segmento è interessante perché accanto a vere e proprie icone del made in Italy tradizionale ci sono aziende che hanno scommesso in maniera innovativa sulla distribuzione come Luxottica e Yoox. E si annunciano nuovi protagonisti come Eataly che vuole diventare sotto la conduzione di Andrea Guerra una piccola Ikea del cibo italiano. È ovvio che quando si confronta il vecchio con il nuovo si è portati a pensare che una volta i grandi gruppi godevano di un retroterra di protezione finanziaria (il metodo Cuccia) e oggi no, ma le differenze di contesto storico ed economico sono così ampie che la nostalgia non può avere campo.
Piuttosto nel futuro prossimo del capitalismo italiano è probabile che ritorni, in forme nuove, la mano pubblica. Al di là dei giudizio di merito sull’operazione è evidente che se la Cassa Depositi e Prestiti di Claudio Costamagna dovesse realizzare direttamente o indirettamente entrambe le operazioni di cui si parla (Telecom e Ilva) saremmo di fronte a una novità di un certo peso per la nostra industria. Resta sul lato basso del trapezio la larghissima presenza delle piccole imprese e di quello che Maurizio Sacconi definisce «il nostro capitalismo popolare». È una grande risorsa in termini culturali, è decisiva per la tenuta dei territori e in qualche modo riesce a dare forma compiuta all’individualismo italiano. È evidente però come manchi un grande progetto capace di portare a valore sistemico la straordinaria presenza dei piccoli, e anzi in questi anni si sono fatti passi indietro come testimonia il semi-fallimento del progetto di Rete Imprese Italia. L’apertura del capitale e le aggregazioni tra simili dovrebbero essere altrettanti passaggi di questo progetto ma le resistenze culturali sono profondissime e purtroppo neanche la Grande Crisi le ha smosse. Sia chiaro: non è certo dal basso che potremo rimediare al «taglio del vertice» ma nemmeno si può sommare danno e beffa.
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